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lunedì 16 luglio 2012


D     Diana

1974, inverno. Per la fine dell’anno prenotò in un albergo sul Passo di Giau, sopra Cortina, che si chiamava molto romanticamente “Tramonto sulle Dolomiti”, anche se era scritto Enrosadira, in ladino. Per la prima volta, lui e Diana, stavano ufficialmente fuori da soli per diversi giorni. Giovanni negli alberghi ormai ci viveva più che a casa sua, anche se da solo, ma essere con Diana fu un po’ una novità, quasi una “prova”.
Stettero benissimo. Giocare a marito e moglie gli riuscì perfettamente e si spacciarono per sposati senza alcun problema. Di sciare, quella volta, gli importò poco, e la loro settimana bianca divenne, a tutti gli effetti, una piccola luna di miele.
Passato Capodanno, decisero di lasciare le Dolomiti e fermarsi a Venezia. In quell’anno appena finito, Giovanni a Venezia c’era stato un sacco di volte per lavoro e la conosceva abbastanza. Si attaccò a un telefono per prenotare e si prepararono a partire. Venezia era perfetta come tappa di una luna di miele, e poi era sul mare.
E a Giovanni il mare scorreva anche nelle vene.
La mattina del 3 gennaio era bellissima, ma con un gelo polare. Ebbero dei problemi anche a liberare la macchina dalla coltre di neve indurita, poi finalmente partirono, eccitati da quel gioco come bambini. Giusto così: erano troppo giovani, per essere “grandi”. E quindi giocare a fare i grandi li faceva sentire giustamente “giovani”... come in effetti erano.
La strada che porta a Selva di Cadore era chiusa da un muro di neve, e dovettero tornare verso il Pocol e scendere a Cortina d’Ampezzo. Qui si fermarono a fare colazione.
«Sei contenta?» chiese a bruciapelo Giovanni.
Stavano seduti a un tavolino di uno dei tanti bei locali della “Regina delle Dolomiti”, davanti a una fumante tazza di cioccolata, e Diana era ancora irrigidita dal freddo e avvolta nella pelliccia di opossum di sua zia.
«Perché?» ...tipico delle donne rispondere con un’altra domanda!
«No! Facevo così, per dire. Abbiamo rinunciato a sciare, stiamo andando a Venezia, ma senza una meta precisa, non so... » altrettanto tipico degli uomini farsi prendere in contropiede!
«Dài, scemo. Sono contenta sì!» ...rassicurante.
‘È mai possibile,’ si chiese con stizza Giovanni, rimanendo in silenzio ‘che le donne riescano a essere materne anche se sono più piccole di te?’
«Allora, » disse...
«se sei contenta, paghi pegno e mi fai da navigatore!»
Come se non conoscesse la strada. Ripartirono e ricominciarono a giocare.
Strada statale 51 d’Alemagna:
«Acquabona!» annunciò Diana, appena fuori Cortina, con l’atlante stradale di Giovanni aperto sulle gambe. E poi lesse, via via che li raggiungevano, i nomi di tutti i paesini del Cadore, mentre scendevano il Gruppo delle Marmarole verso Ponte nelle Alpi. Ma quando risbucarono sul Piave, dopo la galleria di Gardona, il nome del paese successivo le morì in gola: Longarone si annunciava da solo. Nel senso che non esisteva più. Rimaneva soltanto l’alveo del fiume, allargato a dismisura e perfettamente livellato dalle ruspe, che ormai da tempo avevano rimosso le rovine. L’impatto sinistro di quella vallata alluvionale sotto la diga del Vajont, prendeva lo stomaco.
Come se anche il tempo meteorologico ne fosse stato negativamente influenzato, proprio in quel punto entrarono nella nebbia. Da lì in poi il ruolo di navigatore non fu più un gioco, perché non si vedevano nemmeno i cartelli stradali.
«Dovremmo essere a Ponte nelle Alpi!» annunciò finalmente Diana.
«E alla mia sinistra il lago di Santa Croce, grande come un mare!» ...ma Giovanni indicò solo un mare di nebbia. Quando scollinarono la Sella di Fadalto, per scendere verso Vittorio Veneto, la situazione peggiorò addirittura.
«Dài amore fermiamoci, ho anche fame.»
...Diana non era abituata alla nebbia, e non ne poteva più.
«Sì amore, passato Vittorio Veneto andiamo a mangiare in un posticino che conosco, subito dopo il ponte sul Piave.» rispose Giovanni ripescando nei ricordi di quando aveva portato una turbina da quelle parti. Ci volle un’altra ora di nebbia, per arrivare a Villorba.
«Qui c’è anche il Prosecco... di quello buono.» annunciò svegliando Diana, che nell’ultima mezz’ora aveva dormicchiato.
«Meno male ti sei fermato. Dove siamo?»
«A Villorba, nel Montello.»
«Mai sentito... » sbadigliò lei stiracchiandosi.
«È vicina a Treviso. Cerchiamo il posto e ci fermiamo a mangiare.»
«Era l’ora... sono quasi le due.» protestò Diana, adesso sveglia e affamata.
Si fermarono alla trattoria, appena fuori dalla statale. Ambiente familiare ma piacevole, e non c’era quasi più nessuno. La sala da pranzo aveva le classiche tovaglie a quadrettini bianchi e rossi, e due o tre gatti girellavano fra i tavoli.
La mamma-padrona li fece sedere e Giovanni ordinò una bottiglia di Prosecco, e chiese cosa c’era da mangiare quel giorno.
«Coniglio in umido con la polenta bianca: la nostra specialità. Buonissimo!» rispose quella, perentoria. Giovanni non era convinto, ma...
«Buono, per me va bene.» acconsentì Diana, e coniglio fu.
Buono davvero, ma Giovanni riconobbe le costoline. Glielo avevano insegnato a Montebelluna, pochi chilometri da lì. Ovviamente non disse niente a Diana e continuarono a mangiare. Ma guardava con cordoglio i gatti che ancora girellavano fra i tavoli.
Presero un paio di caffè, pagò il conto, e si rituffarono nella nebbia. Traversarono Treviso, poi Diana lesse sulla carta stradale ancora tre o quattro paesi, e infine annunciò:
«Mestre» ...erano arrivati.
Perché a Mestre, Giovanni aveva telefonato per prenotare l’albergo. Quello dove si era fermato altre volte, da solo: un bell’ambiente moderno e ben messo. Presero una matrimoniale, spacciandosi anche qui come sposini in viaggio di nozze. Fecero un bel bagno caldo, scesero a mangiare qualcosa al ristorante dell’albergo e poi a letto presto, ché Diana era veramente cotta.
Il mattino dopo lasciarono l’albergo. Avevano deciso che era più eccitante vivere alla giornata. Traversarono il ponte della Libertà, misero la macchina al garage comunale di piazzale Roma e si affacciarono sul Canal Grande, alla fermata dei vaporetti. Erano a Venezia, ma Venezia dov’era?
«Bello!» esclamò Diana.
Non si vedeva nemmeno l’altra sponda del Canale, dove c’è l’imponente stazione di Santa Lucia.
«Che palle ‘sta nebbia... » sbottò Giovanni,
«dài prendiamo il vaporetto e andiamo a vedere.»
«E che vuoi vedere!»
«Qui siamo ancora in laguna, speriamo che dentro la città ce ne sia di meno.»
«Vabbene, però che delusione.»
«Lo so, amore, ma vedrai che anche così Venezia ha il suo fascino.»
Presero il vaporetto e scesero quattro fermate più in la, in Campo San Stae. Nella parte più interna della città, effettivamente, di nebbia ce n’era molta meno. Girellarono un po’ nella parte più vecchia di Venezia, fino a Campo San Polo. Diana cominciava a subirne il fascino, ma in senso negativo.
«È incredibile. Ma qui ci vivono?»
«Ci vivono, ci vivono. E non solo i veneziani.»
«In che senso, scusa?»
«Pensa a Morte a Venezia di Thomas Mann... gli stranieri.»
«Sì, ma quelli un po’ malati, come quello del film.»
«Io pensavo al romanzo, ma Visconti ne ha fatto anche un bel film, è vero.»
«Comunque ho ragione io. Bisogna essere malati per voler vivere in questa atmosfera livida e cupa.»
«Dài, non esagerare, Diana. Sarà anche una bellezza malsana, ma Venezia è sempre bella. Aspetta a giudicare, non hai ancora visto niente.»
«Per forza!»
«La nebbia, lo so, ma mica è colpa mia.»
«Che c’entri tu, stupido. È che sembra tutto così... surreale. E poi c’è quest’odore di bagnato, anzi di muffa, che proprio non sopporto.»
«Tra un po’ non lo senti più. Pensa che d’estate, col caldo, è peggio. Non lo chiameresti più odore, ma puzzo direttamente.»
«Ora sei tu che esageri. Dài andiamo!»
«Si, andiamo a Rialto e poi a San Marco. Vedrai che ti piace.»
In effetti, le calli e i campielli di San Polo, in quel mattino di gennaio dopo le feste, erano piuttosto deserti e desolati. Man mano che si avvicinavano a Rialto andò meglio. Il mercato che traversarono era pieno di banchi di pesce e di verdura. In giro tanti veneziani intenti nelle loro faccende. Finalmente un po’ di vita.
La Ruga degli Orefici, che porta al Ponte di Rialto, incantò Diana. Di che genere di negozi sia piena lo dice il nome stesso. Dovette portarla via quasi a forza, ma non prima di aver pagato pegno.
Traversarono il Ponte, pieno di botteghe, un po’ come il Ponte Vecchio di Firenze. Quando furono in cima all’arcata si affacciarono sul Canal Grande, e nonostante la nebbia, lo spettacolo fu notevole. Ma forse ancora di più proprio grazie alla nebbia. Da tutti i lati si vedevano un po’ di palazzi e un pezzo di Canal Grande che sfumavano nel nulla. C’era una specie di gioco di trasparenze, che faceva sembrare di essere dentro una bolla d’acqua, sospesa in un mare di latte.
Scesero il Ponte, traversarono Campo San Zulian e, da sotto la famosa Torre dell’Orologio, sbucarono in piazza San Marco. L’unica piazza di Venezia a chiamarsi piazza. La Basilica è subito lì a sinistra e si vedeva bene, ma già la facciata del Palazzo Ducale sfumava nella nebbia che veniva dalla Laguna. Come la punta del Campanile. Dalla Riva degli Schiavoni non si vedeva nemmeno l’Isola della Giudecca che è proprio lì davanti. Rinunciarono a prendere un vaporetto qualsiasi, tanto in tutta la Laguna non si vedeva niente, e tornarono nella piazza. Giovanni decise di comportarsi da turista e comprò i semi di girasole per fare le foto a Diana con i piccioni. Basta tenerne un po’ in mano e arrivano da tutte le parti. Per scherzo, Diana si mise un po’ di semi sulla testa, e successe il caos. La ricoprirono, arruffandole e strappandole i capelli per cercare i semi che vi si impigliavano. Diana ebbe paura, strillò e scappò agitando le braccia per cercare di cacciarli, ma Giovanni aveva già immortalato la scena, e quella foto in bianco e nero rimase memorabile. Comunque Diana ne uscì malconcia: capelli arruffati, Rimmel sciolto dalle lacrime... un casino! Appena in tempo Giovanni se ne rese conto, e smise di sghignazzare prima che lei se ne accorgesse.
«Dài! Che non è successo niente... » cercò di minimizzare.
«Avrei voluto vedere te. Sembrava di essere nel film di Hitchock!»
«Sì, quello dove gli uccelli assalgono gli uomini.»
«Bravo, quello. Ma ora trovami un posto, che devo darmi una sistemata.»
«Andiamo a quel caffè, vieni.» e si avviò, tenendola per mano, verso il Florian. L’accompagnò al bagno, su per una scala stretta e quasi inagibile, poi si sedettero a uno degli storici tavolini.
«Carino qui, ma un po’ vecchiotto... »
«Beh, sai… qui si è seduto anche Casanova.»
«Quello stronzo!» (Diana era inequivocabilmente femminista)
«…povero Giacomo. Dài, che vuoi?»
«Una cioccolata calda.»
«Bene, io un caffè e una grappa.» ordinò Giovanni, accendendosi una sigaretta.
«Dormiamo qui, stasera?» chiese poi.
«Va bene, però ho tutto in macchina.»
«Non ti preoccupare. Cerchiamo un albergo e poi andiamo a prendere quello che ci serve.»
«A piedi, ovviamente... »
«...oppure a nuoto!»
Diana non aveva più troppa voglia di camminare, ma alla battutaccia di Giovanni risero entrambi. Finirono tranquillamente di bere e si rimisero in pista. Sul Canal Grande, di fronte alla Ca’ d’Oro, trovarono da dormire in un albergo ricavato in un antico palazzo nobiliare. Poi fecero un salto al garage per il minimo indispensabile di bagaglio, e tornarono a prendere possesso del loro “regno per una notte”. Non un gran che. L’albergo di Mestre era nuovo e lussuoso, questo vecchio e lussuoso in senso storico, cioè fatiscente. Ma aveva proprio il fascino della cupa decadenza che li aveva accompagnati per tutto il giorno. Quella notte cercarono in tutti i modi di cacciare il ricordo di Morte a Venezia. E ci riuscirono molto bene.
La mattina dopo, quando scostarono i pesanti tendaggi settecenteschi della loro camera e si affacciarono sul Canal Grande, splendeva il sole. Senza dire niente, sentirono tutti e due che qualcosa era inevitabilmente cambiato. Diana ne ebbe la conferma dopo nemmeno un mese.
Poteva essere successo a Firenze, prima o dopo. Poteva essere successo al Passo di Giau o a Mestre.
Ma per Diana e Giovanni, fin da subito e per sempre, non ci furono mai dubbi: successe quella notte a Venezia...

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