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lunedì 16 luglio 2012


E     Stella

1975, estate. Nella notte squillò un telefono:
«Ciao zio, sono Giovanni.»
«Giovanni!? Che succede, che vuoi a quest’ora!?»
Erano le cinque del mattino di un giorno di fine settembre e zio Antonio, tirato giù dal letto, non aveva fatto ancora mente locale. Poi ci arrivò.
«Dove sei, Giovanni?»
«Alla cabina di fronte a Maternità, Diana è già su.»
«Va tutto bene?»
«Sì, sì, non ti preoccupare. Ora vado all’accettazione per il ricovero. Però del lavoro di oggi devi occupartene tu. Mi dispiace, ma io da qui non mi muovo.»
Antonio, vecchio ex camionista, era abituato a che i figli nascessero quando sei lontano. Ma per Giovanni era il primo e lo capiva. E poi, l’aveva insegnato lui a Giovanni quel lavoro, ci voleva ben altro per prenderlo in contropiede. Quando ebbe dato allo zio tutte le indicazioni necessarie, telefonò ai genitori, suoi e di Diana, poi andò a cercarsi un caffè. C’erano delle priorità da rispettare: prima Diana, poi il lavoro e poi gli altri. Sistemati gli adempimenti burocratici per il ricovero, tornò in Maternità ad aspettare. E aspettò dodici ore fuori da una porta, un po’ in piedi in un corridoio, un po’ seduto sulle scale, sempre con la sigaretta in bocca: il perfetto stereotipo del padre in attesa... in quegli anni non usava ancora farli assistere al parto.
Povera Diana... le ci volle fino alle cinque della sera. Poi finalmente, anche Giovanni e i “nonni” furono chiamati alla nursery e, attraverso una vetrata, riuscirono a vedere la piccola Stella. Era come sono tutti i bambini appena nati: brutta... uno scricciolino grinzoso con dei lunghi capelli neri. Non sembrava nemmeno una femmina. Però quando la portarono dalla mamma e Giovanni ebbe tutte e due le sue donne insieme, l’effetto fu completamente diverso. Era un amore. Fanno bene, oggi, a far assistere anche il padre al parto e a mettergli in braccio, subito, il figlio appena nato. Lo chiamano imprinting e sicuramente il bambino lo riceve dalla mamma. Ma nel caso del padre, è lui che lo riceve dal bambino!
Giovanni pensò immediatamente che gli sarebbe piaciuto tanto aver potuto sentire il pianto liberatorio della piccola Stella. Se fosse stato presente le avrebbe chiesto silenziosamente che sensazioni aveva provato, per confrontarle con le sue. Sicuro anche, che avrebbe capito la risposta non espressa. Ma ora era troppo tardi.
Ormai Stella era già nata, e non poteva più ricordare. Forse quelle sensazioni non sarebbero mai riemerse dalla sua memoria primordiale. E lui non avrebbe, mai più, potuto chiedergliele. Non a parole, comunque.
Ma adesso con la piccola Stella in braccio si sentiva come rinato... e ripensò alla camera dov’era nato lui.

*

1950, estate. In quella stanza dove aveva visto filtrare, per la prima volta, attraverso le tendine della grande finestra e delle sue palpebre, la luce del suo primo giorno terreno, troneggiava una grande stufa di terracotta, in un angolo del pavimento in graniglia a greche e losanghe.
Quel pavimento e quella stufa erano stati, negli anni successivi, i suoi riferimenti legati ai primi passi, una mattonella dopo l’altra, e alla crescita, un elemento della stufa dopo l’altro.
In quella stessa camera, ma origliando dalla camera adiacente, quando si sentiva ormai grande, ma aveva solo sedici anni, assistette, una notte non dissimile da quella in cui era nato, all’improvvisa morte del nonno che lo aveva visto nascere. Era molto giovane e, ovviamente, inesperto. Tuttavia quei due eventi si concatenarono in maniera indissolubile nel suo modo di essere. E inconsapevolmente, in quel momento, prese forma la sua linea di pensiero che, alcuni anni più tardi, si sarebbe manifestata in una spasmodica ricerca dei collegamenti metafisici tra la nascita e la morte.
La finestra della camera in cui era nato si trovava al primo e ultimo piano di una palazzina che suo nonno Nicola aveva comprato prima della guerra, e si affacciava su una strada sterrata, quasi di campagna, ma comunque in città pur se in periferia. Giovanni ricorda che anni dopo, da bambino, raggiungere la piazza principale del quartiere era sempre un viaggio allucinante. In inverno, con le pozze e il fango, era addirittura costretto a mettersi le calosce, le soprascarpe di gomma, per andare a scuola. E questa cosa lo faceva stare male, perché si sentiva quello che viene dalla campagna. Infatti, nel quartiere chiamavano la sua strada, quasi con disprezzo, “i pollai”, perché non c’era abitante che, o in un pezzetto di terra o su un terrazzino, o addirittura sul davanzale di una finestra, non avesse un piccolo pollaio o quantomeno una stia con un pollo o un coniglio.
Da questo particolare si capisce che la zona era popolare, se non addirittura povera. Ma Giovanni vi crebbe in una posizione quasi di privilegio, perché suo nonno stava bene. Possedeva non solo la casa col giardino in cui abitavano, ma anche quella accanto, di tre piani e con gli inquilini, e poi un grande magazzino, una specie di garage, un orto con tanto di forno a legna per il pane. Ma soprattutto un appezzamento di terreno, “il campo”, di ben mille metri quadri e pieno di alberi da frutto: susini, albicocchi, peri e ciliegi, nel quale trascorse la sua infanzia. Ma non tutta, perché se il buongiorno si vede dal mattino, fin da piccolissimo lo fecero girare parecchio.
I suoi genitori erano nati anche loro in quella strada. Avevano sulle spalle l’esperienza della guerra, è vero, ma erano molto giovani e sposati da poco. Sentirono quasi subito la legittima voglia di andare a vivere da soli, e ben presto si trasferirono in un appartamentino in affitto in città.
Giovanni era troppo piccolo per conservare ricordi nitidi, aveva a malapena un anno. Forse per sentito dire, ma di quel periodo gli sembra ricordare solo che suo padre, che temporaneamente faceva il custode e il meccanico in un’autorimessa, spesso la sera prendeva l’auto di un cliente e portava lui e la mamma a trovare i nonni. Anche se facevano solo una giratina lui, regolarmente, si addormentava in macchina.
Ma durò poco, perché Enrico era un girellone e dopo nemmeno un altro anno se ne andò, con i suoi tanti fratelli, in Sardegna a fare il camionista per una ditta che stava costruendo le prime strade asfaltate nel Nord dell’isola. Dopo poco, appena Enrico ebbe trovato una casa e si fu sistemato, anche Caterina e Giovanni lo raggiunsero.
E fu un salto nel buio.

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