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lunedì 16 luglio 2012


F     La Sardegna

1953, inverno. Nei primi anni Cinquanta la Sardegna era veramente una terra di confine.
Ritrovarsi sbalzati da una città, emblema dell’arte nel mondo, a un paesino sassaritano sulle pendici del Gennargentu dove a malapena, e non dappertutto, arrivava l’elettricità fu quasi altrettanto traumatico della conquista del Far West da parte dei coloni americani. Non c’erano gli indiani è vero, ma nei ricordi di Giovanni questa è sentita solo come una mancanza. Non mancavano, invece, i terreni riarsi e i contrafforti rocciosi come nella prateria e i fichi d’India che somigliavano ai cactus. E dopo, in altri luoghi altrettanto selvaggi nel Sud dell’isola, le distese di dune che nascondevano il mare e sembrava di essere nel deserto.
Ma anche in quella spartana casa di quel primo sperduto paesino, Giovanni crebbe in una posizione quasi di privilegio. Per gli abitanti del posto, pur certo non dei selvaggi, tutti i membri della sua numerosa famiglia, di cui Enrico come fratello maggiore era il capo, rappresentavano gli “stranieri” venuti dal continente con i camion, a fare le strade. E lui, il più piccolo, biondo e con gli occhi verdi, era il più straniero ma anche il più coccolato, da tutto il paese. A quella casa, dunque, risalgono i suoi primi ricordi nitidi: ormai aveva quasi tre anni.
C’era una cucina enorme e nera ma, si sa, a tre anni tutto sembra enorme. Comunque grande doveva esserlo veramente perché Giovanni ci girava con la sua prima bici, uno strano triciclo di legno che forse aveva costruito suo padre e perché, in un certo periodo, dentro la stanza fu recintato un angolo per tenerci due beccacce, o forse pernici, che erano state trovate chissà dove. Tanto per non perdere l’abitudine a “i pollai”.
Ma di quel periodo furono solo due gli eventi che gli rimasero particolarmente impressi, tanto che se li ricordò veramente per sempre.
Il primo avvenne quella volta che nonno Nicola e nonna Luisa andarono a trovarli, approdando con la loro fiammante Lambretta 125lc  in quel paesino a misura d’asino, dove tutte le strade erano in acciottolato di sassi di fiume. Fecero gente, più che ad andare oggi a prender l’aperitivo in centro con una Formula uno. Ma non fu quello l’evento, anche se di un evento si trattava. Il fatto increscioso avvenne mentre lui se ne andava tutto eccitato in Lambretta col nonno, fra le sue gambe, in piedi sulla pedana. Inavvertitamente mise un piedino su un pedale che manco aveva visto, quello del freno posteriore. Bloccata la ruota di dietro sull’acciottolato e volati per terra tutti e tre: Giovanni, Nicola e la Lambretta, fu tutt’uno. Lui e la Lambretta non si fecero quasi niente, salvo una sbucciatura a un ginocchio e al serbatoio, ma Nicola che aveva una sessantina d’anni e soffriva di sciatica, passò qualche giorno a letto. Giovanni si sentì o fu fatto sentire in colpa per avere “frenato”, anche se non più di tanto perché, ovviamente, era piccolo e non l’aveva fatto apposta. Anzi la cosa per un po’ divenne anche un vanto, perché ginocchia sbucciate se ne vedevano tutti i giorni, ma lui era stato il primo in assoluto a essere cascato da una moto e gli altri bambini questo glielo invidiavano.
Tra sbucciatura e sbucciatura, anche se fanno tutte male, ci può essere molta differenza e la sua non fu più un trauma ma divenne, quasi per incanto, un trofeo da esibire e di cui andare fiero.
L’evento più drammatico fu però il secondo, qualche tempo dopo.
C’era nel paese una certa “Signora Carta”, che a Giovanni sembrava un nome buffissimo, ma che gli faceva sempre i dolcetti sardi con gli zuccherini colorati o i panellini a nido con dentro un uovo sodo, tipici del posto. Fu proprio con uno di questi panellini retto a due mani davanti a se, che salendo di corsa le scale di casa inciampò e picchiò violentemente il mento sullo scalino di sopra, mentre aveva la punta della lingua fra i dentini davanti.
Quasi se la staccò e non fu una cosa da poco, ma il peggio venne dopo.
Lo portarono in una specie di ambulatorio, che era del dottore, del dentista e forse anche del barbiere (ma nel ricordo quest’ultimo ce lo aggiunse dopo – da grande – ripreso da qualche film western). In quel posto di per sé minaccioso, un omaccione, che gli sembrò lo Sputafuoco di Pinocchio che la sua mamma gli leggeva, gli ricucì la lingua con tre punti di sutura messi da sveglio con un ago ricurvo, che andava su e giù davanti ai suoi occhi sbarrati dall’orrore, e che non dimenticò mai più.
Ma poi da quel paese se ne andarono, perché la strada orientale era finita e ora stavano costruendo quella che da Nord andava al Sud, verso Cagliari.
Già nel primo paese che abbiamo visto si parlava un gallurese dell’interno decisamente ostico, perché ben poco aveva a che spartire con l’italiano. Il posto successivo nel quale approdarono era, se possibile, ancora più incasinato dal punto di vista linguistico.
Qui, nel Sud-Ovest, su una specie d’isola comunque collegata alla terraferma da un istmo, si parlava veramente straniero: il catalano, che ben poco ha a che vedere con lo spagnolo, finemente mischiato con il sardo del Sud, che non è poi da meno del gallurese. Enrico e Caterina erano veramente in difficoltà quando i locali parlavano in dialetto ma Giovanni, inspiegabilmente, capiva quasi tutto. Vuoi per la naturale predisposizione correlata alla sua età, vuoi per una latente inclinazione spontanea che gli avrebbe consentito, da grande, di cavarsela dignitosamente in parti del mondo delle quali non conosceva assolutamente la lingua.
Trovarono una casetta sul mare, o meglio sul porto. Si stava costruendo la “Carlo Felice”, la statale che collega Sassari con Cagliari, conosciuta anche col nome di dorsale sarda, con un evidente riferimento alla colonna vertebrale, che collega la testa col bacino, quello del Sulcis.
Il bacino del Sulcis era, allora, una zona mineraria altamente sfruttata, da una società francese. Enrico prese contatti con quest’ultima e adesso, oltre al catrame per costruire le strade, trasportavano anche i minerali ferrosi dalle miniere alle bettoline, che da quel porto partivano per Marsiglia. Questo salto di qualità fece diventare la famiglia un’azienda, ma in quel porto, rimasero solo un inverno, che per Giovanni risultò particolarmente noioso e anonimo. Tanto che l’unico ricordo che riesce a focalizzare è l’immagine di lui e della mamma, in una grigia ma non fredda giornata invernale. Si rivede seduto in una delle tante barchette ormeggiate in porto, con una lenza sul ditino e la mamma che gli insegna a bolentinare, per tirar su dei pesciolini di non più di cinque centimetri.
Enrico non c’era mai, e lui e la sua mamma dovevano veramente annoiarsi.

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