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lunedì 16 luglio 2012


G     Buggerru

1954, estate. All’inizio del suo quarto anno di vita, Giovanni arrivò, finalmente, a Buggerru. Stavolta il paese ha un nome fin da subito... perché Buggerru divenne per Giovanni una pietra miliare, non quasi, ma più di un “mito”.
Ci visse i tre anni successivi, da piccolo, ci tornò una volta da adolescente e un’altra da giovane appena sposato, sempre per delle brevi vacanze. Ma quel posto fa ormai parte di lui, anche dopo trent’anni che non lo vede e anche se ha sentito dire che è completamente cambiato.
Pensandoci bene, lo considera un poco “il caro estinto”, del quale si preferisce conservare come ricordo l’ultima volta che lo abbiamo visto vivo.
Certo, ai suoi tempi Buggerru era più morta di oggi, che è diventata una località turistica con tanto di porticciolo da diporto, e alberghi e ristoranti, ma per Giovanni è vero il contrario. È morta oggi e non l’ha più voluta rivedere, per conservare intatto il ricordo di quando era viva per lui.
Arrivare la prima volta in quel paesino fu, dunque, per Giovanni un’esperienza scioccante e, col senno di poi, quasi metafisica.
Si trovava pochi chilometri dal porto dove avevano abitato, ma allora non c’erano strade litoranee, e per arrivarci, bisognava fare un giro pazzesco nell’interno. Enrico aveva caricato armi e bagagli e famiglia su un traballante camioncino e ora traversavano paesini dai nomi impronunciabili.
Giovanni, che vedeva solo campi riarsi e dune di sabbia, rimase interdetto quando a un tratto il suo babbo disse:
«Finalmente siamo tornati sul mare!»
Giunti a Portixeddu, Enrico girò verso Sud, sulla litoranea di San Nicolao, ma con un particolare: Portixeddu e San Nicolao erano solo nomi che lui annunciava, ma non indicavano nessun tipo di insediamento o anche solo di presenza di abitanti, e non c’era alcun cartello stradale per farli riconoscere. La litoranea, poi, era un nastro d’asfalto di cinque chilometri perfettamente rettilinei e con alte dune senza un filo d’erba, che nascondevano l’orizzonte da entrambe i lati della strada.
Enrico la conosceva bene quella strada, ma quando si trovarono a metà percorso sembrava di non sapere più dov’erano il Nord e il Sud e, di conseguenza, il mare e l’entroterra. Questo quando andava bene, perché spesso le violente mistralate sul Mar di Sardegna spazzavano quella costa e allora la litoranea battuta dal vento spariva sotto la sabbia e per quello l’avevano asfaltata: per ritrovarla!
Arrivati in fondo quasi senza accorgersene, perché ormai ipnotizzati dal “deserto”, c’era una breve salita sulla destra, dove cominciava un po’ di macchia mediterranea riarsa, che portava a uno spuntone roccioso. Qui, senza alcun preavviso, finiva la vegetazione e la strada girava bruscamente a sinistra. E dopo quasi un’ora che Enrico lo aveva annunciato... tutt’a un tratto il mare era lì sotto, a precipizio, con due faraglioni che proseguivano in acqua la linea del promontorio e delimitavano un piccolo golfo in fondo al quale si trovava il paese.
Giovanni il mare lo conosceva, ma quello non aveva niente a che fare con i porti dove finora era vissuto.
In quel punto non aveva troppo senso fermarsi, a causa della ristrettezza della strada tagliata direttamente nello scoglio, ma non passava nessuno e poi era altrettanto impossibile non farlo, perché si rimaneva senza fiato e confusi, prima di convincersi che non si trattava di un miraggio. Enrico infatti si fermò, fece scendere dal camioncino la moglie e il figlio, e...
«Caterina, Giovanni, vi presento Buggerru.» annunciò in tono ufficiale e quasi con l’orgoglio della scoperta.
Caterina rimase incantata da quel nuovo paese, che comunque a Giovanni continuava a non sembrare vero.
Non un miraggio, ma diverso da tutti gli altri che Giovanni aveva visto, perché questo non era un tipico paese sardo. Sia nell’interno sia sul mare, aveva sempre visto posti dove la gente viveva da secoli quando non da millenni, data la vicinanza dei nuraghe. Qui invece l’insediamento aveva solo pochi decenni, in quanto legato alla miniera di Malfidano, recente pure lei.
Buggerru era un paese di minatori, ma fortunatamente non aveva niente a che vedere con l’immagine classica che abbiamo di tale tipo di villaggi. Qui non eravamo nel Galles o in Belgio, qui c’era il sole e il mare e anche se la vita era grama lo stesso, mancava del tutto la cupa malinconia della Cittadella di Cronin.
Buggerru fin dalla prima volta gli sembrò un paese solare, disegnato come il delta di un fiume in un fondovalle che sfociava nel mare, ma nel quale non scorreva alcun corso d’acqua. Al posto di quello che geograficamente avrebbe dovuto essere l’alveo, e che una volta lo era sicuramente stato, c’era la strada principale, l’unica.
Intanto che Enrico spiegava tutto rapidamente, ma con passione, soprattutto a Caterina – che di fronte a questi continui cambiamenti non era mai troppo tranquilla – Giovanni ascoltava, più attentamente di quanto ci si sarebbe aspettati da un bambino della sua età.
Per Giovanni i ricordi legati a quel periodo sono, sì, piuttosto nitidi ma gli sembrano talmente lontani nel tempo da credere che risalgano a una vita precedente, o addirittura a un’epoca preistorica.
Comunque la loro storia, e quella di tutta la famiglia che li seguiva, qui mise delle radici profonde, che a distanza di quasi cinquant’anni ancora resistono.
Dopo due anni di lavoro in Sardegna anche i fratelli di Enrico cominciavano a organizzarsi. Ci fu chi si fece finalmente raggiungere dalla moglie e dal figlioletto, e chi cominciò a pensare di metter su famiglia sul posto.
Giovanni non si sentiva più solo come negli anni precedenti, perché adesso aveva finalmente anche un cuginetto della sua età e qualche zia di riferimento. Erano, beninteso, tutte persone che nemmeno conosceva, data l’età alla quale aveva lasciato Firenze, ma erano comunque suo cugino e le sue zie.
Con Francesco, che lui chiamava Cecco anche se la zia non voleva, formarono una squadra. Siccome godevano di una discreta libertà, dato che in giro non c’erano pericoli di traffico, né tanto meno di perdersi, se ne stavano quasi tutto il giorno a zonzo. Mangiavano foglie di croccante lattuga romana “rubata” negli orticelli, andavano a farsi regalare qualche caramella all’Emporio, grazie al fatto che il fratello più giovane di Enrico si era fidanzato con la figlia della signora Ottavia, la proprietaria. Oppure si limitavano anche solo a esplorare tutti gli angoli del piccolissimo paese. Gli unici divieti che avevano erano di andare sul mare e di avventurarsi su per le strade che portavano alle miniere, sia la nuova sia la vecchia.
Per due ragazzini di quell’età, Buggerru era veramente un “paese dei balocchi”, pur se i balocchi, o giocattoli come si dice oggi, loro non sapevano neanche cosa fossero.
D’estate poi, quando non soffiava il Maestrale, a volte tanto forte da smerigliare le gambe con la sabbia, con la mamma e le zie andavano sul mare, veramente stupendo, a cercare conchiglie strane sul bagnasciuga. Su tutto il fronte del paese c’era una lunga spiaggia addossata a una specie di pontile per le barche dei pescatori. E in cima a quel pontile di pietra cominciava una vecchia galleria, con ancora le rotaie arrugginite dei vagoncini, che dopo un centinaio di metri sbucava sul mare aperto, oltre la punta Sud. A Giovanni, percorrere quella galleria, ovviamente non illuminata, dava un vero brivido, sia di paura sia di eccitazione, anche se la traversava solo con i genitori, la domenica, per andare a far il bagno su quella scogliera. Solo una volta, un pomeriggio di sole accecante, lui e Francesco ci si avventurarono da soli, in barba a tutti i divieti. Ma della luce accecante di fuori, che aveva fatto pensar loro che il buio quel giorno non potesse esistere, quando furono a metà rimase solo il ricordo. La luce delle due estremità era lontanissima e fioca e loro erano nelle tenebre più nere. Sepolti vivi nelle viscere della terra. Giovanni non ricordava di aver mai traversato un buio così pesto, quando stava per mano al suo babbo.
Francesco anche, e furono presi da un terrore così paralizzante che non fu facile tornare indietro di quei cinquanta metri e riguadagnare l’uscita. Non fecero mai parola con nessuno di quell’esperienza, ma non per paura della punizione: quella l’avevano già avuta.
Percorrendo tutta la spiaggia si arrivava invece al promontorio sul quale in alto girava la strada e qui, proprio in fondo, dove andava sempre con mamma a fare castelli di sabbia, c’era una grotta naturale. Quasi sul bagnasciuga, piccola ma abbastanza profonda e umida, serviva, nelle giornate calde come fornaci, a fornire un po’ di refrigerio e d’ombra. Poco sopra la grotta, si vedeva nella roccia a cinque metri d’altezza e raggiungibile solo scalando alcune staffe di ferro murate, l’ingresso di un punto di vedetta con tanto di finestrelle sul mare aperto, scavato durante la guerra. Ma lassù non gli permisero mai di arrampicarsi.
Di quel periodo i ricordi di mare più belli rimangono le “spedizioni” di ferragosto a San Niccolò. Sì, proprio quel San Nicolao che si incontrava arrivando al paese dalla strada con le dune così alte che il mare non si vedeva. Proprio quella strada asfaltata che col vento di maestrale spariva, e sulla quale si insabbiavano continuamente i loro camion.
Ci andavano tutti gli anni per la festa dell’Assunzione e in qualche altra occasione, ed erano veramente spedizioni. Caricavano su due camion tutto l’occorrente per la scampagnata e almeno trenta persone, perché oltre a tutta la famiglia di Giovanni, c’era anche la famiglia della fidanzata dello zio. Questa famiglia, che aveva antiche radici piemontesi, era la più importante e numerosa di Buggerru e, nel secolo precedente, di Planu Sartu il paese ormai abbandonato, legato alla miniera vecchia.
Di loro però Giovanni ricorda solamente quella ragazza che è poi diventata una sua zia, i suoi due fratelli e la sua mamma, la proprietaria dell’Emporio. Tornando a San Niccolò, lo sappiamo vicinissimo al paese, ma veramente in un altro mondo. Un mondo sospeso fra due colori senza sfumature, il blu e il bianco. In paese c’era, infatti, chi lo chiamava is arenas.
Col mare calmo, la linea dell’orizzonte spariva dove l’acqua aveva il solito colore del cielo: il blu. Tutto il resto, solo sabbia candida: il bianco.
In quelle giornate anche l’aria si fermava e sembrava di trovarsi in una di quelle sfere di vetro piene d’acqua con la neve finta: anche se l’agiti, tutto si muove lentamente.
Col mare mosso invece, la schiuma delle onde creava una sfumatura fra il blu e il bianco, e anche l’aria, tesa e carica di sabbia e di spruzzi, contribuiva a dissolvere il bianco della spiaggia nel blu del mare e del cielo.
Su quella “spiaggetta” di cinque chilometri, assolutamente deserta, portavano di tutto per stare una giornata in vacanza. Non era facile perché dovevano scarpinare su e giù per le dune con tavoli, seggiole, pali e lenzuola per fare una tendone per l’ombra, e poi tutta la roba da mangiare e da bere. Ne venivano sempre fuori giornate memorabili, che nel ricordo di Giovanni sono quasi come una settimana di vacanza.
Praticamente erano “le ferie” e come tali divennero ancora più importanti l’ultimo anno, quando cominciò ad andare a scuola e cessò il senso di vacanza permanente, che aveva vissuto fino ad allora.
L’avventura in Sardegna stava però per concludersi. Infatti non ci finì nemmeno la prima elementare.
In quegli anni aveva, praticamente, conosciuto i nonni solo quando li avevano raggiunti a Óschiri con la Lambretta. Poi li rivide non più di una volta l’anno. Furono tre, infatti, i viaggi che Caterina, con Giovanni, affrontò per tornare a Firenze un paio di settimane, dai suoi genitori. Così nonno Nicola e nonna Luisa rimasero gli unici fiorentini presenti, anche se lontani, nel suo quotidiano.
Tornare a Firenze era davvero un viaggio, ci volevano due giorni. Prima si doveva raggiungere Olbia o Cagliari, con la corriera e il treno. Poi ci si imbarcava la sera sulla nave della Tirrenia e si faceva la traversata fino a Civitavecchia. Ancora treno e, se tutto andava bene, la sera del giorno dopo arrivavano a Firenze. Ma siccome la spedizione avveniva sempre d’inverno, a volte trovavano il mare talmente agitato che la nave ci metteva il doppio e quando finalmente sbarcavano erano più sbattuti di due uova strapazzate.
In quei giorni che stavano a Firenze dai nonni, Caterina si sentiva “a casa” ovviamente, perché lì c’era nata e cresciuta, mentre Giovanni rimpiangeva la Sardegna. A Firenze, infatti, lui c’era solo nato e in quel momento “ricordi” non ne aveva. Quando però tornarono a viverci definitivamente, piano piano riaffiorarono le sensazioni della primissima infanzia e il suo album dei ricordi si arricchì di alcune immagini che non sapeva neanche di avere archiviate nella memoria.
Intanto la vita a Buggerru continuava a scorrere nella sua routine ormai consolidata. I camion andavano su e giù dalla miniera al porto di Sant’Antioco. Ogni tanto si insabbiavano, quando la strada di San Niccolò spariva per il vento e bisognava andare con un altro camion a rimorchiarli fuori.
Una sola volta, Giovanni si ricorda di un incidente serio. Uno dei fratelli della nuova zia sarda, che lavorava per il suo babbo come autista, un giorno col camion carico di minerale uscì di strada sulla montagna, invece che fra le dune. Precipitare è molto più pericoloso che insabbiarsi, e furono momenti concitati, ma poi tutto si risolse con un paio di mesi d’ospedale a Cagliari e con un camion da buttare via.
Nel frattempo Caterina, che prima della guerra aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti, insegnò a Giovanni a leggere, e quasi a scrivere.
Ogni tanto si metteva a disegnare col carboncino, perché i colori a olio non ce li aveva. Aveva solo una vecchia scatola di acquerelli con i quali metteva qualche tenue sfumatura di colore sui disegni che le piacevano di più.
Praticamente faceva la casalinga, ma con tanto tempo a disposizione, perché lì la vita scorreva a un altro ritmo, molto più lento.
Oltre a tenere a posto la casa e i vestiti, che allora si rammendavano, scriveva qualche lettera di lavoro per la famiglia con una fiammante Lettera 32 dell’Olivetti e si dedicava allo shopping. Nell’unico negozio del paese: l’emporio della signora Ottavia.
Oppure quando, ogni dieci giorni, apriva la macelleria. Sì, perché la carne costituiva veramente un lusso, ma più che altro una rarità. La macelleria era veramente tale, nel senso che ogni dieci giorni arrivava in paese una bestia viva, veniva macellata e venduta subito. Poi basta.
Per mangiare tutti i giorni bisognava accontentarsi delle aragoste, dato che il mare ne era pieno e nessuno aveva ancora pensato di andare a venderle altrove, e perciò valevano meno delle sardine.
Ma qualcosa stava cambiando.
Caterina manifestava una smania sempre più incontenibile, che via via si trasformava in inquietudine. Enrico cercava di allontanarsi sempre di meno, e Giovanni cominciava a sentirsi un po’ trascurato dalla mamma dopo tanti anni (cinque!) di totale complicità. Caterina cominciava a mettere via le cose in maniera strana, e col senno di poi capì che le imballava. Dal babbo c’erano sempre più spesso, la sera, i fratelli e mentre lui giocava con Francesco, loro stavano fino a tardi a parlare.
La mamma, che un giorno era venuta a scuola a parlare con la maestra...
Inspiegabilmente Buggerru stava diventando sempre più lontana, finché un giorno – tutt’a un tratto – erano pronti per partire. Troppi bagagli, stavolta anche il babbo, tutti i parenti e praticamente tutto il paese a salutarli. Giovanni capì che non sarebbero più tornati... e gli venne da piangere... e adesso lo sapeva fare.
Ma a guardare bene si trattava solo di un ricorso storico. Cinque anni prima il salto nel buio lo avevano fatto Enrico e Caterina, perché Giovanni era troppo piccino per avere già qualcosa da lasciare.
Ora, invece, che i genitori facevano ritorno alle loro origini, Giovanni sentiva di lasciarle. Adesso era solo lui, a sette anni, che faceva il salto nel buio.

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