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lunedì 16 luglio 2012


H     Il Viuzzo

1957, estate. Nella seconda metà degli anni Cinquanta Firenze cominciava finalmente, dopo più di un decennio, a scrollarsi di dosso il velo di polvere lasciato dal passaggio della guerra. Restavano, è vero, ancora tante ferite aperte. Tanti buchi nell’intonaco dei muri, dove avevano sparato. Tante lacerazioni ancora tra le persone, che si erano sparate. Perché a Firenze era stata più guerra civile, che tra Tedeschi e Alleati. Infatti la città non aveva mai subito bombardamenti, ma gli unici danni grossi che aveva avuto, erano stati grossi davvero.
I tedeschi, quando gli alleati furono alle porte, si ritirarono, ma si lasciarono alle spalle una mattina d’agosto, che rimase negli orecchi di tutti i fiorentini. Si svegliarono per una violentissima serie di esplosioni, che entrando dalle finestre aperte li fece saltare nei letti, come stavano saltando tutti i ponti sull’Arno. Salvo lo storico Ponte Vecchio, che fu risparmiato al prezzo di minare e distruggere le due zone del Centro Storico alle sue estremità.
I problemi più grossi però, come da tante altre parti d’Italia, li avevano causati gli scontri tra fascisti e partigiani. I primi appostati sui tetti come cecchini a sparare alla gente per strada e i secondi impegnati a stanarli. Fu una fase decisamente cruenta, pur se limitata nel tempo, ma lasciò tante lacerazioni profonde tra la gente perché, dall’una e dall’altra parte, sempre fiorentini erano anche se avevano imparato a odiarsi.
A Giovanni, che allora non era ancora nato, queste cose le raccontò nonno Nicola, che le aveva vissute, perché lui di guerre al fronte aveva fatto quella precedente.
Il suo babbo, invece, in quei periodi faceva il soldato, molto lontano, e in seguito di cose da raccontargli ne ebbe parecchie anche lui.
La città, ma soprattutto la loro strada, nella quale tornarono, non erano comunque dissimili da come le avevano lasciate cinque anni prima.
Il nonno aveva preparato, a tempo di record, un appartamentino apposta per loro. Quello al primo piano della casa accanto, adiacente alla camera dove Giovanni era nato. Nicola lo aveva reso comunicante con la sua casa aprendo una porta nel muro di confine e costruendovi tre o quattro scalini, perché tra i due primi piani c’era del dislivello. Abitavano così da soli, indipendenti, ma solo una porta li divideva dall’altro appartamento, quello dei nonni.
Enrico, all’inizio, lavorava come capo officina per la solita azienda che costruiva le strade in Sardegna, che aveva anche una cava nei dintorni di Firenze, dove si estraevano i materiali per la costruzione dell’Autostrada del Sole. Ma presto si sarebbe certamente messo a fare qualcosa per conto suo. Caterina, invece, era molto ingrossata perché aspettava un bambino, e stava a casa con la sua mamma Luisa.
Intanto Giovanni fece l’ultimo trimestre della prima elementare in una nuova scuola. Capitò in una classe molto particolare, enorme. Era ricavata in quella che doveva essere la palestra della scuola, per cui non aveva l’ingresso su un corridoio, come le altre classi, ma direttamente sul campo sportivo, delimitato su un lato dalla scuola, su un altro dalla palestra e sugli altri due da un muro, nascosto da una fila d’alberi. Dai quattro finestroni della classe si vedevano gli alberi e il cielo e, con quelle vetrate, non gli sembrava di stare rinchiuso, come capita spesso ai bambini che affrontano la prima esperienza scolastica. A lui non era capitato nemmeno a Buggerru, perché lì la scuola stava nella parte alta del paese, e allora dalla sua classe si intravedevano le dune di sabbia e il mare.
Comunque la scuola finì presto e senza problemi perché Caterina gli aveva insegnato già da prima a leggere e quasi a scrivere, ma soprattutto a disegnare visto che, anche se poi, per colpa della guerra, non prese mai l’abilitazione all’insegnamento, era comunque professoressa di disegno.
Quella prima estate, pur sentendo inizialmente la mancanza del cugino Francesco, Giovanni prese possesso della sua strada come, tre anni prima, aveva fatto con Buggerru.
Quella strada era, come abbiamo visto all’inizio, molto periferica e urbanisticamente definita “privata”, perché non portava in nessun posto se non alle case di chi ci abitava. Incominciava da una delle strade normali del quartiere e traversava mezzo chilometro di campi con solo la colonica di un contadino nel mezzo. Dopo avere poi scavalcato la ferrovia, iniziavano le case che si snodavano intorno a un anello, che si richiudeva su di sé e all’interno del quale c’era il “campo” quadrato di suo nonno. Ci si entrava e usciva dallo stesso incrocio e per questo non aveva la qualifica di via ma di viuzzo. E dunque con questo nome, Viuzzo, la chiameremo da ora in avanti.
Alla fine di un torrido pomeriggio d’agosto, nel Viuzzo, Giovanni e altri bambini se ne stavano, col naso in su, ad aspettare sotto una finestra accanto a quella della stanza in cui era nato lui, e prima anche la sua mamma.
Finché venne giù la nonna ad annunciargli che era nata Anna, la sua sorellina.
In quel momento Giovanni fu solo preso dall’eccitazione dell’evento e non si pose certo problemi esistenziali. Ma tanti anni dopo si domandò se anche Anna, nella sua nascita, avesse avvertito le stesse sensazioni personali che lui era riuscito poi a far riemergere della propria memoria, pur senza poterle definire ricordi.
I ricordi legati al Viuzzo, invece, sono tanti perché lì ci visse i successivi quindici anni. Ma torniamo all’estate in cui nacque Anna.
La strada, ancora sterrata e non illuminata come quando c’era nato lui, non era troppo comoda, ad esempio per andare a scuola, specie quando pioveva e ci volevano le calosce, né troppo sicura col buio. Non per la criminalità, come verrebbe fatto di pensare oggi, ma proprio perché, se Giovanni non aveva in tasca una piccola torcia elettrica, certe sere d’inverno senza luna non sapeva davvero dove mettere i piedi. Per contro era il massimo per lui e per gli altri bambini, che potevano fare quello che volevano, specie durante le vacanze estive.
Qui Giovanni aveva ancora meno limitazioni che a Buggerru, dove comunque passavano i camion del babbo. Nel Viuzzo non passava nessuno, primo perché non era una strada di transito e secondo perché, di tutti gli abitanti, gli unici che avevano un’automobile erano il suo nonno e forse altri tre.
Così crescevano come “ragazzi di strada” ma nel senso buono perché sulla strada, in estate, ci passavano tutta la giornata a giocare. Solo nelle prime ore dei pomeriggi più afosi Giovanni se ne rimaneva in casa a leggere, sdraiato in terra per sentire il fresco del pavimento. E poi fuori a giocare con gli altri ragazzi, perché in fondo anche Giovanni ormai era un ragazzo.
Aveva una sorellina... di ben sette anni più piccola, quindi la “bambina” di casa ora era lei. E poi lui ormai si sentiva grande, molto più grande degli altri ragazzini della sua età, perché aveva già molte più cose di loro da raccontare.
Il gioco storico di quegli anni erano “le biglie”: palline di terracotta colorata o di vetro che ciascuno conservava gelosamente in un sacchetto di stoffa. Era quasi un gioco d’azzardo, perché si facevano dei mucchietti con tre palline più una sopra e poi, da una certa distanza, se ne tirava un’altra cercando di colpirle. Chi ci riusciva vinceva le quattro palline che aveva abbattuto e le metteva nel suo sacchetto. Quei sacchettini di stoffa costituivano il loro tesoro personale, la cui consistenza si misurava soprattutto dal numero delle biglie di vetro che possedevano. Quelle che loro chiamavano “bocchi”, al maschile, mentre quelle di terracotta erano semplicemente “le palline”.
L’azzardo comunque, stava nel perdere tutto e rimanere col sacchetto vuoto, perché poi bisognava convincere la mamma a rifornirsi in Cartoleria, e specialmente i bocchi di vetro colorato costavano veramente parecchio!
Ma il loro gioco principale nelle giornate estive era “la muriella”, una specie di gioco delle bocce fatto con dei sassi appiattiti al posto delle palle, ma con le stesse regole. Era l’arte d’arrangiarsi, è vero, ma ancora più bella che avere delle bocce di legno, perché i sassi piatti se li dovevano cercare e poi anche lavorare per farli diventare tondi e lisci. E anche quello faceva parte del gioco.
Un altro divertimento a costo zero era quello chiamato “tappino”. Tracciavano i bordi di una pista nella polvere della strada e vi facevano correre, colpendoli “a biscotto” con l’indice e il pollice, dei tappi a corona della birra, dentro ai quali ciascuno attaccava la faccia del suo ciclista preferito, ritagliata dalle “figurine”. Se con un tiro il tappino usciva dai bordi, si tornava al punto di partenza. Dal gioco dei tappini è nato poi quello delle palline di plastica trasparente con le figurine dei ciclisti, che si usano ancora sulle piste di sabbia di tutte le spiagge.
C’erano poi ovviamente “i quattro cantoni”, “acchiappino”, “la campana” e “nascondino”, che credo tutti conoscano.
Ma la cosa che lo appassionò di più fu la guerra con le cerbottane, dove chi veniva colpito dal pirulino di carta arrotolata era eliminato, come nei moderni war game con gli schizzi colorati, che non sono quindi una novità.
La novità più grossa invece, era che le sere d’estate poteva stare fuori dopo cena perché tanto ci stavano praticamente tutti, con le seggiole fuor dall’uscio o affacciati alle finestre a frescheggiare.
In qualsiasi punto del Viuzzo si trovassero, Giovanni e gli altri ragazzi avevano sempre un occhio che li controllava. E solo una volta avvenne un fatto increscioso: per la “Festa della Rificolona”. La rificolona è una lanterna di carta colorata con dentro una candela accesa. La sera della festa, tipica di Firenze, oltre alle sfilate sull’Arno di barche illuminate, tutti i bambini andavano in giro portando una di queste lanterne attaccata in cima a una canna.
Anche nel Viuzzo erano tutti in processione con le rificolone, e ad uno dei ragazzi più grandi venne una brutta idea. Avvolse i pirulini di carta attorno a uno spillo che ne diventava la punta, e si nascose nel buio con la cerbottana. Quando passò la sfilata delle rificolone si mise a fare il tiro a segno. Il pirulino di carta, con lo spillo, diventava una vera freccetta che bucava la carta, prendeva fuoco dalla candela e incendiava tutta la lanterna.
Ne bruciarono diverse, tra i pianti dei bambini più piccoli, l’allarme degli altri ragazzi e la collera dei genitori. Non per le rificolone bruciate, ma perché quel gioco stupido poteva essere veramente pericoloso. Solo per caso nessuno rimase infilzato da uno spillo, ma nella peggiore delle ipotesi qualcuno avrebbe potuto rimetterci un occhio. Per fortuna lo stupido aveva buona mira! Fu però scoperto e castigato e, purtroppo, il giorno dopo vennero sequestrate tutte le cerbottane e uno dei giochi preferiti fu messo, per lungo tempo, al bando.
Al buio, comunque, lo sport principale era catturare l’unica fonte di luce: le lucciole. Si trovavano dappertutto per cui era facile, e poi ne bastava anche una sola. Dopo averla colpita al volo col palmo della mano la si raccoglieva da terra con delicatezza e bisognava stare attenti, tenendola nel pugno chiuso, a non schiacciarla. Poi di corsa a casa a metterla sotto un bicchiere rovesciato perché la mattina dopo al suo posto ci sarebbe stata una monetina.
Giovanni lo sapeva benissimo che la lucciola non si trasformava ma che era la sua mamma, appena lui andava a letto, a liberarla e a mettere il soldino. Però in quel periodo la “paghetta” ancora non esisteva, e quel piccolo introito faceva molto comodo perché nel pomeriggio passava il gelataio ambulante, con un vecchio motocarro, e ogni tanto un cono di crema e cioccolata, gli unici gusti che aveva, ci rientrava come merenda.
Ma non dimentichiamo che all’interno del cerchio della strada c’era il “campo”. Quella era la vera fonte inesauribile di merende, perché ci si trovava sempre qualche tipo di frutta matura da mangiare. E si divertivano pure, ad arrampicarsi sugli alberi per arrivarci. Bastava solo stare attenti a non farsi male, a non stroncare i rami e a non raccogliere i frutti troppo acerbi, perché sennò nonno Nicola si arrabbiava.
Con gli anni, poi, il campo divenne il set principale della vita di Giovanni e di tutti i suoi amici e amiche.
Una vera e propria “ludoteca” autogestita dove, via, via che crescevano, inventarono di tutto: giochi da bambini, giochi da ragazzi, giochi da adolescenti...

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