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lunedì 16 luglio 2012


I      Firenze e dintorni

1957, inverno. A un certo punto il Viuzzo diventò una strada asfaltata, con una serie di lavori e un dispiegamento di mezzi che lasciarono esterrefatti tutti i suoi amici.
Giovanni, invece, sapeva benissimo come e cosa stavano facendo, perché in quel tipo di cantieri ci era vissuto da piccolo in Sardegna.
Quando la strada bianca, polverosa e buia diventò nera d’asfalto e illuminata dai lampioni, cambiò un mondo. Sicuramente in meglio, ma perse quasi tutto il suo fascino.
Nel periodo in cui Enrico lavorò alla cava, Giovanni andò spesso col suo babbo a Calenzano. Ora Enrico adoperava la Lambretta del nonno, che per via della sciatica non ci poteva più andare e si era comprata la Topolino.
Alla cava Enrico faceva il meccanico e l’estate successiva Giovanni la passò quasi tutta lassù, in un ambiente che per certi versi gli ricordava la Sardegna. C’erano un sacco di camion, gli escavatori, i dumper, che sono delle specie di grosse carriole a motore, e tutti questi mezzi dipendevano dalla manutenzione del suo babbo.
Enrico dirigeva un’officina attrezzatissima e Giovanni si perdeva incantato fra trapani, torni e saldatrici, tutte macchine utensìli dalle quali doveva comunque girare alla larga, ma che sognava un giorno di poter adoperare.
Ma il momento più emozionante di quelle giornate veniva sul far della sera, quando suonava la sirena. Dopo la decina di minuti che servivano a tutti per allontanarsi, altri tre colpi brevi di sirena e poi brillavano le cariche esplosive che erano state sistemate durante la giornata.
Ogni volta, con un boato assordante, venivano giù interi tratti della parete rocciosa della cava, che ormai si era già mangiata quasi mezza montagna.
Quando Giovanni ripartiva verso casa col babbo, il polverone non si era ancora posato sul cumulo di detriti precipitati ai piedi della parete. Il mattino dopo quei materiali sarebbero stati raccolti, trasportati e lavorati, mentre altri operai iniziavano a preparare le nuove cariche. Questo ricordava a Giovanni la miniera di Buggerru e pensò che, in fondo, le cave sono solo miniere che non stanno sotto terra.
Tutte le sere tornava a casa stanco, polveroso e arruffato dal vento della Lambretta. Caterina faceva gli occhiacci e lo cacciava in tinozza prima di andare a letto, anche se Giovanni protestava con la mamma che non aveva bisogno di lavarsi, tanto la mattina dopo, alla cava col babbo, si sarebbe sporcato di nuovo.
Ma non gli riusciva mai di spuntarla. Intanto l’estate passava e tornava insistente il pensiero della scuola.
Giovanni andava sempre in quella classe enorme, ricavata dalla palestra, e per tutte le elementari ebbe sempre il solito maestro Arcangeli, che aveva conosciuto sin dall’inizio. Era un uomo veramente eccezionale e fu, per tutti i suoi ragazzi, un vero maestro di vita perché non si limitava a insegnare le materie scolastiche.
L’anno che ci fu l’eclissi totale di sole, il maestro portò la classe su per una viuzza della collina di Fiesole, un buon punto d’osservazione vicino alla scuola.
Si trattava pur sempre d’una lezione d’astronomia, ma diventò una vera avventura. Giovanni, già incuriosito dall’evento eccezionale del quale tutti parlavano, quando cominciò a toccarlo con mano si appassionò ancora di più. Il preparativo divertente intanto, fu fare i vetrini affumicati.
Il maestro Arcangeli aveva dato a ciascuno un rettangolo di vetro e una mattina, a scuola, Giovanni si mise ad affumicare il suo sulla fiamma di una candela, che ciascuno aveva portata da casa. Quella che gli era sembrata una cosa semplicissima si rivelò, invece, piuttosto impegnativa. Dopo un po’ che lo teneva sulla candela, il vetro cominciava a bruciare e non sapeva più come reggerlo in mano. Per farlo freddare ci scappava la ditata e bisognava ricominciare tutto dal principio. Il maestro via via controllava i vetrini controluce al filamento d’una lampadina e non gli andavano mai bene, perché erano sempre, o poco affumicati, o poco omogenei.
Ci volle tutta la mattina, ma alla fine il vetrino era talmente nero che Giovanni si chiedeva cosa mai si sarebbe potuto vederci attraverso. In compenso le sue mani erano ancora più annerite e qualche dito anche bruciacchiato.
‘Meno male’ pensò ‘che abbiamo i grembiuli neri!’
Perché, se fossero stati bianchi come quelli delle bambine, non avrebbe avuto il coraggio di riportarlo a casa.
Finalmente venne il giorno dell’evento, che alla nostra latitudine era visibile proprio a metà mattinata. Tempo splendido, e tutti i ragazzi col grembiule nero in fila dietro al maestro Arcangeli, tenendo ciascuno in mano con la massima attenzione il vetrino, che andava retto solo per i bordi. Erano tutti talmente compresi e attenti che quando arrivarono e il maestro ispezionò i vetrini, nessuno lo aveva sciupato.
A occhio nudo il sole sembrava quello di sempre, ma quando Giovanni lo guardò attraverso il vetro affumicato vide, con stupore, che da una parte c’era già una losanga nera che ne mangiava un pezzo. Poi, piano piano come al tramonto, il cielo si fece sempre più scuro e i bambini sempre più silenziosi.
«Adesso non c’è più bisogno del vetro affumicato.» annunciò finalmente il maestro, e tutti lo abbassarono.
Giovanni rimase pietrificato come una statua di sale. Anche perché stava facendo da “cavalletto” e aveva poggiata sulla testa la macchina fotografica con la quale il maestro immortalava l’evento. Ma la raccomandazione di non muoversi, sarebbe stata comunque superflua.
Nonostante la lenta progressione del fenomeno, il buio venne all’improvviso quando l’allineamento fra la luna e il sole fu perfetto. In quel momento il cielo divenne scuro come dopo il tramonto e dove fino a un attimo prima, c’era stato comunque il sole, rimase un minaccioso buco nero circondato da un fiammeggiante alone di bagliori gialli e rossi. Per un attimo Giovanni ebbe veramente paura e gli corse un brivido su per la schiena. Anche perché, insieme al buio, scese un gelo improvviso e innaturale, per una mattina d’inizio estate. Il fenomeno inverso gli sembrò avesse una progressione più veloce. Forse la luce era più potente del buio, perché il cielo schiarì rapidamente e in maniera rassicurante, consentendogli di riprendere il fiato che inconsciamente aveva trattenuto.
L’emozione di quel momento, invece, la trattennero tutti a lungo, rivivendola ogni volta che lo raccontavano a chi lo aveva solo visto di sfuggita, e non guardato attentamente. Ma soprattutto perché una parete della classe rimase dedicata agli ingrandimenti delle foto che il maestro aveva fatto e, per tutto il resto dell’anno, l’ebbero davanti agli occhi.
Un’altra emozione forte, legata alla scuola, Giovanni la provò quella volta che la sua classe partecipò a un Saggio Ginnico di fine anno, al Velodromo delle Cascine.
Anche in questo caso ci fu una lunga preparazione, stavolta nel cortile della scuola. Facevano ginnastica a corpo libero e con il cerchio, tutti insieme e in sincronia. Non fu facile accordare i movimenti di più di quaranta ragazzini, ma il maestro Arcangeli era abbastanza soddisfatto. Il cerchio, che anche Giovanni aveva in dotazione non era un vero e proprio attrezzo ginnico, ma un semplice hula-hop, uno di quei cerchi di plastica da farsi girare in vita, ancheggiando. Il maestro li aveva comprati con i soldi della scuola, tutti rossi perché risaltassero con le loro divise, tutte bianche.
La mattina del Saggio, al Parco delle Cascine ci andarono con l’autobus. Poi, in fila per due, raggiunsero a piedi il Velodromo, e si ritrovarono in una bolgia ordinata di diverse centinaia di ragazzini, già tutti vestiti di bianco, che si preparavano all’esibizione. Per quel poco che ne sapeva, a Giovanni sembrò di essere alle Olimpiadi.
Si preparò anche lui, sudando come una fontana in quella rovente mattina d’estate: maglietta, pantaloncini, calzini e scarpe di tela, tutto candido e immacolato. E guai a sporcarsi! Poi la lunga attesa che venisse il loro turno, senza nemmeno potersi sedere per terra.
Quando finalmente toccò a loro, dovette convincere le sue gambe a seguirlo e ce la fece solo evitando di guardare le gradinate del pubblico, piene di tutti i genitori ma anche di un sacco di personalità, financo il sindaco.
Non tolse gli occhi di dosso al maestro Arcangeli che li dirigeva e andò tutto bene, o quasi, perché in un passaggio gli sfuggì di mano il cerchio rosso. Per fortuna riuscì a riprenderlo al volo prima che si mettesse a rotolar via, e sperò di non avere dato troppo nell’occhio.
L’esibizione finì, e anche loro ebbero l’applauso del pubblico e il nastrino tricolore con la medaglietta della manifestazione, che il Provveditore agli Studi mise al collo di ciascuno, via via che uscivano. Ora sì che, col tricolore e la medaglia al collo, le Olimpiadi gli sembrava di averle addirittura vinte.
Fu una bella iniziativa, ma non venne più ripetuta perché, a qualcuna delle autorità, aveva ricordato troppo le adunate oceaniche di bambini e non solo, che andavano tanto di moda vent’anni prima. Di queste cose Giovanni non sapeva ancora nulla, ma non sarebbero comunque rientrate nei suoi pensieri. La cosa più importante che aveva per la testa in quel momento era la sua bicicletta nuova. Una vera bici da uomo, abbastanza grande che, anche col sellino tutto abbassato, a nove anni ci arrivava appena. Con quella bicicletta, l’orizzonte di Giovanni si allargò parecchio.
Caterina non lo aveva mai accompagnato troppo. Anche a scuola, fin dalla seconda, ci andava da solo e non era vicinissima a casa.
Adesso, con la bici, non solo esplorò le parti lontane del quartiere, ma si avventurò a zonzo per la città. Andò in Centro, alle Cascine, in Oltrarno. Sempre fin dove riusciva ad arrivare, perché il problema di Firenze, per un ragazzino in bicicletta, è che sui tre lati collinari le salite sono subito impegnative. Raggiungere “a pedali” il Piazzale Michelangelo o Fiesole gli sembrava peggio dei tapponi alpini del Giro d’Italia e poi c’erano tanti posti dove andare, senza doversi sfiancare in salita.
In inverno, invece, i pomeriggi li passò spesso in officina dal suo babbo. Enrico infatti, aveva nel frattempo rilevato un’autofficina in una strada non lontana dal Viuzzo. Adesso riparava automobili, e ne aveva anche comperata una. Quando non pioveva, dopo avere fatto le lezioni, Giovanni andava in officina dal babbo. Ci rimaneva fino a quando Enrico faceva festa e tornavano a casa con la 600 verdolina con i sedili rossi, della quale erano entrambe fieri. In quell’officina Giovanni imparò tante cose di meccanica, e ci si appassionò sempre di più. Nei pomeriggi che passava con suo padre cominciò a darsi da fare e, per prima cosa, costruì un carretto da usare nel Viuzzo, dove uno dei lati della strada che si richiude su se stessa è in discesa. Lo fece di legno, con l’asse anteriore imperniato, una corda a mo’ di redini per guidarlo e quattro grossi cuscinetti a sfera per fare da ruote.
Sull’asfalto nuovo del Viuzzo andava che era un piacere e quando arrivava in fondo alla discesa se ne andavano anche un bel po’ di tacchi delle scarpe per frenare e fermarsi. Con quel carretto Giovanni e i suoi amici giocarono per tutta l’estate, ma presto si stancarono di doverlo ritirare su in salita, e allora pensò che forse avevano bisogno d’un motore.
Nell’inverno successivo cominciò a saggiare le reazioni del babbo e trovò la strada spianata... perché anche Enrico in fondo, per i motori e le automobili aveva una vera passione. Anche lui, infatti, aveva già cambiato la piccola 600 con una fiammante Giulietta, una macchina grande e sportiva, con la quale in agosto avevano fatto il lungo viaggio per tornare, questa volta in ferie, a Buggerru.
La primavera successiva Giovanni riuscì a convincere il babbo a portarlo, una domenica pomeriggio, con la mamma che non era troppo convinta e la sorellina, alla pista dei go kart dove Enrico conosceva il meccanico che li noleggiava.
Aveva dieci anni e mettersi il caschetto a scodella e salirci sopra fu una bella emozione.
Cominciò a girare con circospezione, per vedere come bisognava fare, ma ci prese subito la mano e si fermò solo quando finì la miscela. Aveva dimostrato di saperci andare, e quando la sera tornarono a casa, sul tetto della Giulietta del babbo, legato al portabagagli, c’era un vecchio go kart da riparare.
Nei due mesi successivi dedicò ogni suo minuto libero a smontarlo, riverniciarlo di un bel rosso corsa e rimetterlo a nuovo, mentre il babbo si occupava del motore.
Quando in estate quel “bolide” fece il suo ingresso nel Viuzzo fu un evento epocale. Tutti gli altri ragazzi rimasero a bocca aperta. Una cosa del genere non l’avevano mai nemmeno vista!
Giovanni organizzò le cose come aveva visto al noleggio dei kart, e fece base nel garage del nonno. Tutti i pomeriggi lo tiravano fuori, mettevano la miscela, piazzavano un ragazzo su ciascuna curva della strada a controllare, e cominciavano a girarci a turno, un quarto d’ora ciascuno. Perché nella loro compagnia, se qualcuno aveva una cosa, questa era di tutti.
Per tutta l’estate il rombo del motore a due tempi rallegrò le orecchie degli abitanti del Viuzzo, finché qualcuno, che in quelle ore voleva fare la pennichella, disse basta. Alla minaccia di chiamare i Vigili Urbani, la “pista” purtroppo chiuse e il go kart fu riportato prima in officina, e poi di nuovo al noleggio dove, rimesso a nuovo com’era, lo ripresero molto volentieri. Giovanni ci tornò un paio di volte col babbo prima di lasciar perdere, perché era troppo lontano e poi perché, senza tutti i suoi amici non era la stessa cosa.
Chiodo caccia chiodo. Il go kart fu presto dimenticato grazie alla comparsa sulla scena di un motorino. Nel garage del nonno, un giorno arrivò un vecchio Beta tre marce di suo zio Giulio, che non lo usava più. Giovanni cominciò a fargli la corte.
Lo teneva pulito, ogni tanto lo metteva in moto sul cavalletto, finché un giorno Nicola decise di insegnargli ad andarci. Non era difficile, a parte il cambio a manopola con la frizione, sembrava una bici. E così Giovanni cominciò a girare intorno al Viuzzo, con pazienza, per far abituare il nonno e la mamma a vederlo sul motorino. Arrivò in fondo alla strada, poi si avventurò nelle prime strade del quartiere, quelle vicine, e piano piano in quelle sempre più lontane, ma senza traffico.
Era incosciente ma non troppo, sapeva di avere meno di dodici anni e che per guidare il motorino ce ne volevano quattordici, per cui stava attento a non farsi beccare. Col motorino si permise di arrivare dove con la bici aveva dato forfait. Girò tutte le stradine secondarie della collina di Fiesole, dove non passava mai nessuno e dove c’erano delle salite che ogni tanto, anche il motorino non ce la faceva. Quando tornava nel Viuzzo, il più delle volte non si erano accorti della sua assenza, ma se il nonno o la mamma lo avevano cercato raccontava che si era fermato dietro l’angolo a parlare con un amico.
Così, con un po’ di fortuna, la fece sempre franca e ufficialmente, come per andare a scuola, continuò a usare la bici – che tre anni prima gli era sembrata tanto grande e che adesso gli andava stretta – finché non ebbe i canonici quattordici anni finiti.

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