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lunedì 16 luglio 2012


L      Vacanze

1958, estate. Il secondo agosto da che erano tornati a Firenze, ché nel primo era nata Anna, andarono quindici giorni al mare, in Versilia. Al Forte dei Marmi passava le vacanze la sorella maggiore di Caterina, Liliana, col marito Giulio e la cuginetta Franca, che aveva tre anni più di Giovanni.
Caterina e Liliana erano andate al Forte fin da bambine, prima della guerra, e conoscevano ancora tanta gente. Come Francesco e Isolina che, appena un po’ nell’interno, affittavano la loro casa durante l’estate. Sì, proprio la loro casa, e in quel periodo vivevano in una specie di baracca arrangiata nel capanno degli attrezzi. Erano infatti contadini e a parte gli ortaggi, coltivavano soprattutto granturco. La sera, a veglia, Franca e Giovanni davano una mano a spannocchiare, mentre il vecchio Francesco raccontava storie di mare, perché da giovane aveva fatto il pescatore.
Il Viuzzo, nonostante si trovasse dentro Firenze, era un po’ campagna... qui uguale, nonostante si fosse nella famosa Versilia. A Giovanni perciò, stare in campagna sembrava perfettamente naturale. Passava il tempo con la cugina in quella grande aia circondata dai campi di granturco. Girellavano nell’orto dove avevano il permesso di raccogliere qualcosa, ma senza sciupare niente. Isolina poi, aveva un grande pollaio, mentre nel Viuzzo ormai non ce n’erano quasi più.
Nelle ore più calde del pomeriggio se ne stavano, per obbligo, al grande tavolo sotto la pergola di vite americana a fare i compiti per le vacanze.
Ma tutte le mattine si andava al mare. A Giovanni – si sa – il mare scorreva anche nelle vene e quell’orizzonte assolutamente rettilineo era l’unico limite di spazio che non gli andava stretto. Era semplicemente l’infinito. Tutti gli altri paesaggi terrestri, più o meno frastagliati, ponevano dei limiti. Erano angusti anche se si trattava di scenari bellissimi, e non gli gonfiavano il cuore di sensazioni come quella linea infinita che sfumava nel nulla.
Solo una volta, tanti anni dopo, Giovanni ritrovò la sensazione che gli trasmetteva l’orizzonte marino, in un luogo che dal mare era lontano anni luce, in tutti i sensi: il Teneré nel Sahara algerino, perché anche quell’immenso mare di sabbia era semplicemente l’infinito.
La Versilia è sempre stata famosa per la sua spiaggia. È una spiaggia! Lunga decine e decine di chilometri, tra la foce del Magra e quella dell’Arno. Ma anche se al Forte è forse nel suo punto più bello, non ha niente a che vedere con i mitici cinque chilometri di San Niccolò.
In Sardegna c’erano le dune e la natura, in Versilia gli stabilimenti balneari con le cabine, e gli ombrelloni con le sdraio. Tante bellissime comodità, ma anche tante limitazioni alle quali Giovanni non era abituato. Addirittura un regolamento esposto che vietava di giocare a pallone, di scavare buche nella sabbia e tantissime altre cose: gli sembrava tutto molto innaturale. Ma d’altronde qui le persone erano fitte come sardine in scatola mentre a San Niccolò non si vedeva anima viva né a sinistra né a destra, né dietro né davanti.
Qui invece, anche il mare non era deserto ma continuamente punteggiato di pattìni, barche e barchette, motoscafi e vele lontani, e tante grosse navi che passavano all’orizzonte dirette a Genova o a Livorno. Giovanni non aveva mai visto un mare tanto frequentato, e uno dei suoi passatempi preferiti, in spiaggia, divenne quello di scrutare, col grosso binocolo da marina dello zio Giulio, le sagome tremolanti di tutto ciò che passava al largo.
Ricordava l’acqua della Sardegna particolarmente gelida, anche in estate, perché era mare aperto.
Al Forte invece, nelle giornate di bonaccia, il mare sembrava un brodo tiepido. All’inizio la cosa gli piacque poco, ma c’era il vantaggio che i genitori li lasciavano fare il bagno quanto volevano, e lui e Franca in acqua ci stavano a mezze mattinate, fino a uscirne cotti dal sale.
Al Forte dei Marmi Giovanni tornò anche l’anno successivo, ritrovando sempre i soliti ragazzi e ragazze con cui aveva fatto amicizia: dai figli di Silvio il bagnino a quelli dell’industriale milanese con la Jaguar. Ma gli erano più simpatici i primi.
L’anno che compiva dieci anni tornarono un mese in Sardegna perché i fratelli di Enrico, i suoi zii, erano ancora tutti là, a Buggerru. Stavolta, al contrario di tutte le altre volte che l’aveva fatto, anche il viaggio fece parte dell’avventura. Con la macchina nuova stracarica di roba, in perfetto stile “Famiglia Brambilla in vacanza”, partirono una mattina da Firenze come per una scampagnata, e arrivarono il mattino dopo a Olbia.
«Anna, ecco la Sardegna!» esclamò Enrico mentre sbarcavano in macchina dal traghetto, presentando l’isola alla figlia minore che non c’era mai stata.
«Io invece, Olbia me la ricordo.» aggiunse subito Giovanni per attirare l’attenzione.
«Vorrei vedere che te ne fossi già scordato... » Caterina aveva annusato la situazione,
«mi hai accompagnata tante volte avanti e indietro, quando il babbo rimaneva a Buggerru! Meno male che c’eri tu... ».
I ruoli si erano ristabiliti e Giovanni cominciò a raccontare alla sorellina quello che gli ricordavano gli scenari che via via si presentavano ai loro occhi. Quando lasciarono l’abitato della cittadina portuale e imboccarono la statale “Orientale Sarda”, indicata da un cartello che aveva letto con la coda dell’occhio,
«Questa strada l’ha fatta il babbo!» annunciò con orgoglio ad Anna, che si guardava intorno piuttosto distratta.
«Calma, non l’ho fatta io... » intervenne suo padre,
«...io e gli zii ci abbiamo solo lavorato, tanti anni fa e vi garantisco bambini, che non fu un divertimento.»
Enrico ripensò silenziosamente, facendo finta di essere impegnato nella guida, ai primi tempi che aveva passato da solo in Sardegna.
Quando con i suoi fratelli aveva tentato l’avventura, gli inizi erano stati molto duri. Sul camion quasi ci viveva e la notte dormivano tutti insieme in baracche di lamiera nei cantieri. Facevano tutti la stessa vita, anche Dante, l’amico di Enrico, titolare della ditta che aveva preso l’appalto di costruzione. All’inizio, in quella zona interna fra Nùoro e Sassari, anche quelli del posto avevano mostrato una certa diffidenza. Enrico pensò che era stato abbastanza incosciente a farsi raggiungere dopo pochi mesi da Caterina e Giovanni. Ma l’azzardo iniziale gli aveva dato ragione, e oggi era contento di averci creduto.
«Ho fatto proprio bene... » mormorò quasi tra sé Enrico. Si accorse subito d’aver parlato ad alta voce. Caterina e i bambini si erano infatti girati con aria interrogativa, aspettando la conclusione per sapere cosa aveva fatto bene,
«...a decidere di tornare in Sardegna quest’anno, invece di andare al Forte.» concluse allora Enrico, che non aveva voglia di farsi vedere nostalgico.
«In effetti, » riprese Caterina, leggendogli nel pensiero e per trarlo d’impaccio,
«ci siamo stati tanti anni ma abbiamo visto così poco. E anche i posti che già conosciamo vale la pena di tornare a vederli con occhi diversi, vero Enrico?»
Per tutta risposta Enrico girò al primo bivio e imboccò la litoranea della Costa Smeralda dove, più avanti, l’Aga Kan aveva comprato, e cominciato a ricostruire, un vecchio paesino di pescatori chiamato Porto Cervo.
A metà mattinata, lungo il golfo di Arzachena, l’aria sembrava tremolare nella calura del solleone. Ma fu il suo profumo che quasi diede alla testa a Giovanni. La macchia mediterranea, bruciata dal sole, spandeva un odore fortissimo di resina scaldata, che si mischiava al salmastro che saliva dal mare. Si sentì, in un attimo, tornato a casa. La sua crescente eccitazione contagiò anche Anna che diventava sempre più curiosa e interessata ai posti dei quali aveva sempre sentito parlare. Per lei era la prima volta, anche se quasi un ritorno, perché il suo “progetto” aveva avuto inizio a Buggerru.
Anna non lo sapeva, ovviamente, ma in fondo era più sarda lei di Giovanni.
Dopo aver comperato un cocomero enorme, e scaldato dal sole, da un contadino che li coltivava a lato della strada, Enrico si infilò in una stradina bianchissima, stretta dalla macchia, che finiva letteralmente su una lingua di sabbia color argento, lambita da quel mare di un incredibile color topazio. Non c’era nessuno: altro che Versilia!
«A terra ragazzi... » ordinò Enrico.
«Che si va a fare un bel bagno.» concluse Caterina scendendo di macchina e prendendo gli asciugamani nel bagagliaio. Enrico slegò da sopra il tetto della macchina l’ombrellone e lo sistemò aperto a due passi dal mare.
Si spogliarono velocemente perché quella mattina, nella cabina della nave, Caterina aveva fatto mettere a tutti il costume da bagno sotto i vestiti e poi, di corsa in mare.
Babbo e mamma presero Anna per le mani, correndo la tennero sollevata da terra sul bagnasciuga, e la lasciarono andare nell’acqua fra schizzi e strilli di gioia. Il dopo... fu tutto uno sguazzare e uno spruzzarsi.
Sembravano quattro papere che giocano, con gli occhi sgranati per il divertimento e per l’elettrizzante sensazione dell’acqua fredda, che diventava sempre più piacevole.
Il cocomero lo avevano quasi sotterrato nel bagnasciuga, ma quando lo mangiarono... dentro era ancora caldo. Per questo sembrò a tutti il più dolce e il più buono che avessero mai assaggiato.
Giovanni e Anna si lavavano il viso con le bucce di cocomero e per sfuggirsi rotolavano nella sabbia. Dopo un po’ sembrarono di sabbia pure loro e Caterina li ricacciò a mollo per pulirli. Poi dichiarò la tregua.
«Ora basta!» l’ordine della mamma non ammetteva repliche...
«All’ombra a fare un bel riposino.»
Anna e Giovanni ubbidirono controvoglia.
Ma la stanchezza data dal viaggio, dal lungo bagno e dall’eccitazione li fece crollare immediatamente, avvolti negli asciugamani. Perché sembra impossibile, ma anche col caldo che era, la brezza marina faceva scorrere brividi sotto la pelle arrossata dal sole.
A sera Enrico trovò una camera in affitto a Palau e la mattina dopo, via di nuovo. La meta era vicinissima ma, per Giovanni, particolarmente intrigante. Andavano a Caprera a trovare Garibaldi. Aveva studiato quell’anno, a scuola, la Spedizione dei Mille e aveva pure vinto un premio con un disegno sulla battaglia di Calatafimini.
La prima cosa che colpisce arrivando a Caprera è il fenomeno del vento, sempre fortissimo. Anni dopo Giovanni se lo sarebbe ricordato, traversando con un piccolo cabinato a vela le Bocche di Bonifacio. Ma quel giorno la sua attenzione si spostò subito sul resto. C’era la quercia secolare piantata da Garibaldi, la casa trasformata in museo e la tomba dell’eroe dei due mondi. Tutto molto suggestivo ma anche molto polveroso, come sono sempre i cimeli. La sua curiosità di bambino ci mise poco a ritenersi, prima soddisfatta, e poi quasi annoiata.
Nei giorni seguenti girarono in lungo e in largo il Nord dell’isola. Uno dei posti più belli e selvaggi che Giovanni ricorda fu il lago Coghinas, tra le gole dei monti del Gennargentu. Caterina, che aveva imparato a pescare quando erano a Sant’Antioco, una mattina ci provò nell’aria immobile e silenziosa.
«L’ho preso, l’ho preso, Enrico aiutami a tirarlo su.»
Per due volte risuonò il grido eccitato di Caterina, ed ebbero due grosse tinche per pranzo. Sono dei bei pesci d’acqua dolce e il lago era più che pulito, ma quando le mangiarono, cotte su un braciere di legna aromatica di macchia, a Giovanni non piacquero per niente: sapevano di fango.
Passarono ovviamente anche da Óschiri, per salutare la famosa “Signora Carta” e farle conoscere la piccola Anna. Ma di quel posto Giovanni ricordava troppo un ago ricurvo e non vide l’ora di ripartirne, carico di dolcetti con gli zuccherini colorati e di panellini a nido con dentro l’uovo sodo. Dalla volta della lingua ricucita, quei panellini non li aveva più rivisti, ma li lasciò volentieri a sua sorella.
Poi scesero verso Sud, lungo la costa occidentale da Alghero a Oristano, e ad un certo punto il posto si chiamava “Is Arenas”. Per Giovanni, che se ne stava un po’ intontito dal viaggio in macchina accanto alla sorellina che dormiva, aveva inspiegabilmente un aspetto familiare. Fu il successivo cartello stradale a fargli suonare tutti i campanelli. “Portixeddu”: stavano per arrivare.
Svegliò Anna pregustando la magia delle dune, ma quando trovarono il cartello “San Nicolao”, orrore!
«Ma, babbo... » e a Giovanni non riuscì aggiungere altro.
Stavolta si vedeva il mare, perché le “sue dune” erano state spianate. E ci avevano pure piantato centinaia e centinaia di arbusti e alberelli per non farle riformare dal vento. Gli avevano cancellato il suo deserto personale.
«Lo so, Giovanni, che ti piacevano di più le dune, » cercò di consolarlo Enrico,
«ma era previsto da prima che partissimo. Buggerru sta diventando grande e... »
«...non era più possibile!» continuò la mamma,
«Bisognava fare qualcosa... per questa benedetta strada.»
Ma le ragioni logiche non possono spuntarla contro il mondo immaginario di un bambino, e Giovanni continuò a sentirsi deluso e tradito.
Quando poi arrivarono alla famosa curva davanti ai faraglioni, Enrico si fermò, come la prima volta. Adesso però c’era una piazzola per poterlo fare, e scesero tutti e quattro dalla macchina.
«Certo che è cambiato in tre anni.» sussurrò Caterina.
«Vedi quante casette nuove ci sono lassù agli orti, » aggiunse il babbo...
«e hanno anche asfaltato la strada e rimesso a posto tutto il pontile, guarda.» E lo indicò a Giovanni, che invece non era per niente convinto.
Scesero in paese, e poi fu tutto un salutar persone, baci, abbracci e:
«Ma quanto sei cresciuto!»
«Ma che bella bambina!» ...fino alla nausea.
Anche Francesco era cresciuto, ma ritrovarono subito la vecchia complicità e gli raccontò dei cambiamenti e lo riportò nei loro posti.
Uno in particolare: la galleria in cima al pontile che costituiva il loro segreto. Non era più la stessa... che gli aveva fatto rimanere negli anni la paura del buio. Avevano coperto di cemento le vecchie rotaie e l’avevano pure illuminata con qualche lampadina. Tutte le volte che ci aveva ripensato gli era venuto il cuore in gola. Stavolta la traversò senza alcun brivido di paura, ma neanche di piacere.
A Buggerru si fermarono un paio di settimane, perché c’erano tutte le zie e gli zii e il babbo doveva pure parlare di affari.
Il mare era sempre bellissimo, ma la Buggerru di Giovanni stava già cominciando a morire. Fu la penultima volta che ci mise piede, ma forse era cambiato anche lui perché sinceramente non gli diceva più nulla e a fine mese ripartì per Firenze senza rimpianti.
L’anno dopo andarono in vacanza in Puglia.
Guglielmo, un commerciante di auto usate, amico del babbo, gli aveva trovato una casa nel suo paese sotto Bari. Polignano a Mare, dove era nato Domenico Modugno, il cantante famoso che invece Giovanni pensava fosse siciliano. A Polignano lo veneravano tutti come un dio.
Andarono a vedere le grotte di Castellana, i trulli di Alberobello e tante altre cose. Ma a Giovanni piacque soprattutto il mare, perché in quel tratto di costa non ci sono spiagge ma solo una scogliera molto bella. Da quel momento, e dopo la delusione di San Niccolò, a Giovanni son sempre piaciuti di più gli scogli che le spiagge.
A Polignano fece amicizia con Michele, il fidanzato della figlia di Guglielmo, un ragazzone di vent’anni campione regionale di pesca subacquea. Michele aveva una barchetta di plastica, con un piccolo motore incorporato, il cui interno somigliava a una vasca da bagno squadrata di un metro per due. Spesso li accompagnava a fare il bagno nei punti più belli della scogliera.
Una mattina che andava invece a pescare, Michele portò con sé solo Giovanni. Prima di partire gli disse che doveva fargli da assistente, gli diede un orologio impermeabile, gli spiegò che le due bombole del respiratore duravano venti minuti ciascuna, e gli insegnò ad accendere il motore e a portare la barca.
Quando arrivarono nel punto che Michele aveva scelto per l’immersione, mentre si metteva la muta, le bombole dell’ossigeno, la maschera e tutto l’armamentario da sub, Giovanni lo guardava con un misto d’ammirazione e d’invidia. Poi Michele sparì sott’acqua e lui rimase da solo, a dondolare in quel guscio di noce sballottato da un mare non calmissimo.
Dopo neanche dieci minuti, in un ribollire di bollicine, Michele riaffiorò.
«Reggi bene il fucile mentre risalgo.» gli disse appena si fu tolto il boccaglio del respiratore. Dal fucile subacqueo che strinse, partiva la lunga sagola che spariva in mare. Appena Michele fu risalito,
«Adesso vedi che bestia!» disse, cominciando a recuperare la sagola.
«Cos’hai preso? È grosso?» incalzò Giovanni scrutando l’acqua dal bordo della barchetta che ballava terribilmente. E si ritrovò faccia a faccia con una cernia di trenta chili. Michele la tirò dentro quella specie di tinozza, la sfiocinò e si ributtò velocemente perché ne aveva vista un’altra.
Giovanni rimase da solo con quel bestione in agonia che aveva tutti gli aculei delle pinne ritti. Tra che scodava, tra che veniva sballottato dalle onde, quel pescione viscido e sanguinante occupava tutta la tinozza. A Giovanni non rimase che starsene seduto sul bordo, con le gambe di fuori, cercando di non cadere in mare.
Stavolta poi Michele non tornava più e Giovanni cominciava a sentirsi preoccupato.
Con le due bombole Michele aveva al massimo quaranta minuti d’autonomia. Era già passata quasi mezz’ora dall’inizio della seconda immersione, e Giovanni non staccava gli occhi dall’orologio che Michele gli aveva dato. Se non risaliva entro pochissimi minuti sarebbe rimasto senza ossigeno. E lui che assistenza poteva dargli?
‘Sono solo un bambino!’
Rigettò immediatamente la considerazione: era sintomo di vigliaccheria. Ma anche se metteva in moto e andava a cercare aiuto, sarebbe stato troppo tardi. Intanto i minuti passavano inesorabili, e sempre più velocemente. Stava per essere preso dal pànico quando Michele riemerse, schizzando fuori dall’acqua come un delfino.
Stava male. La voglia di catturare anche il compagno della prima cernia gli aveva preso la mano e fatto dimenticare i tempi. L’appostamento durò troppo, e quando riuscì a infiocinarla era fuori tempo massimo. Gli toccò schizzare su da trenta metri, senza ossigeno e quindi senza soste di decompressione. Solo il fatto di avere un fisico molto allenato lo salvò da un’embolia grave. Ma stava male.
Era semisvenuto e vomitò anche l’anima.
Giovanni dovette entrare in acqua e aiutarlo a togliersi di dosso l’attrezzatura da sub e a risalire sulla barchetta. Quando ce l’ebbero fatta e dopo aver ripreso fiato tutti e due, Michele, ancora stordito, si ricordò della seconda cernia.
Credeva di averla persa, insieme al fucile. Invece vide il fucile in barca e la sagola legata a uno scalmo dei remi.
«Grazie... Giovannino... sei stato davvero bravo.» riuscì a sussurrare.
«Beh, sono il tuo assistente, no?» minimizzò con sussiego Giovanni. Ma si sentiva improvvisamente grande come l’altro. Poi tirarono su la “bestia”, che era più grande della prima, e tornarono verso riva. La battuta di pesca era stata eccezionale e altrettanto eccezionali furono le bistecche di cernia alla brace che mangiarono in una grande cena della quale furono le star.
Quel giorno Giovanni si sentì veramente nel blu dipinto di blu... più famoso e importante di “Mister Volare”.

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