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lunedì 16 luglio 2012


M    The Sixties 



1963, inverno. In quegli anni l’autofficina diventò per Enrico sempre più stretta. I suoi fratelli avevano cominciato a tornare quasi tutti dalla Sardegna. La numerosa famiglia si ricompose e, piano piano ma inevitabilmente, ridivenne un’azienda.
Di autotrasporti, ovviamente.
Nell’Italia del boom economico degli anni Sessanta, l’automobile stava diventando un bene irrinunciabile. Ma a costi ancora proibitivi, per cui c’era un gran mercato dell’usato, soprattutto al Sud. Avendo un’officina, Enrico conosceva diversi commercianti. Come il Guglielmo di Polignano a Mare.
Tutte quelle macchine usate che andavano al Sud avevano bisogno di chi ce le portasse. Enrico e suo fratello Antonio ebbero l’idea delle “bisarche”, quegli strani camion a due piani strutturati apposta per trasportare le automobili.
Andarono a Torino, da una ditta molto grande che lavorava per la Fiat, e ne comprarono tre molto usate. Antonio e altri due fratelli le guidavano su e giù per l’Italia, mentre Enrico dall’officina trovava e organizzava il lavoro.
Progressivamente l’officina si trasformò in un ufficio, presto anche troppo piccolo, e infine si trasferirono a Novoli, vicino alla filiale della Fiat.
Enrico era rientrato nel suo mondo, anche se... stavolta non andava personalmente a giro con il camion.
Giovanni intanto faceva le scuole medie. Adesso le classi erano miste e non più divise fra grembiuli bianchi e neri come alle elementari. Alle medie però i ragazzi il grembiule non lo portavano più, mentre erano le ragazze ad averlo nero. Sembravano tutte delle mezze monache, ma forse era proprio quello lo scopo di chi aveva fatto le regole. Quelle “belline” però, si vedevano e si facevano vedere lo stesso.
La cosa buffa per Giovanni fu che, nonostante l’assidua passione per la meccanica, rimase affascinato dal latino: la materia che nessuno poteva vedere. Anche in questo caso la spiegazione è semplice. Non l’affrontò come materia, ma come “lingua” e lo imparò un po’ come aveva imparato da piccolo a capire il sardo.
Il suo compagno di banco si chiamava Niccolò, con due cognomi perché era di famiglia nobile, ma non aveva la puzza al naso, anzi, era simpatico e divennero amici per la pelle. Niccolò abitava in una casa bellissima sui viali, con un grande giardino dietro, dove furono organizzate diverse feste in casa le domeniche pomeriggio, dove venivano regolarmente invitate quelle belline, dove vennero ballati i primi lenti e dove ovviamente nacquero i primi amori.
Una mattina Anna, la professoressa d’italiano, storia e geografia, arrivò in classe con la faccia tirata e mise sulla cattedra una foto incorniciata di John Fitzgerald Kennedy, il presidente degli Stati Uniti assassinato a Dallas il giorno prima.
«Ragazzi... » esordì,
«oggi è un brutto giorno per l’umanità. Stamani parliamo solo di storia. La storia di un uomo... » e aveva le lacrime agli occhi,
«che sicuramente non era perfetto, che sicuramente ha fatto i suoi errori, ma che sicuramente nella storia lascerà un segno. E stamani noi ne parleremo... prima ancora che entri nei libri e nei programmi.»
Quella mattina non ci furono altre lezioni. Anna coprì tutte le ore e parlò di tante cose. Dalla guerra fredda alla conquista dello spazio, dal Vietnam alla Baia dei Porci, dalla Crisi di Cuba all’ONU, da Giovanni XXIII a Nikita Krusciov, dalla Nuova Frontiera all’integrazione razziale, da Martin Luther King a Malcom X. Nel bene o nel male, dietro ciascuno di questi eventi e di questi personaggi, la figura di “JFK” risultava sempre presente, e molto spesso determinante.
Tutti avevano sentito parlare in televisione di queste cose, ma solo a fine mattinata, dopo avere fatto tante domande e poi avere espresso qualche timida opinione, i ragazzi cominciarono veramente a rendersi conto che, in qualche modo, qualcosa stava cambiando e che niente in futuro sarebbe stato più lo stesso. Non era una sensazione piacevole, ma quel giorno Giovanni sentì di essere cresciuto di più che di un solo giorno.
‘Chissà cosa ci aspetterà domani?’ pensò, riferendosi alla sua generazione. Ma per fortuna non sapeva che qualsiasi cosa la sua immaginazione avesse azzardato, sarebbe stata inferiore alle realtà che avrebbero dovuto affrontare negli anni successivi.
La scuola media stava finendo e la sua passione per la meccanica riprese il sopravvento sul latino. Caterina e la professoressa Anna cercarono in tutti i modi di convincerlo ad andare al Classico, ma non volle sentire ragioni e le scontentò entrambe. Anna ci pianse anche, ma lui ormai aveva deciso per l’Istituto Tecnico Industriale.
L’ITI era la scuola superiore più grande di Firenze, aveva anche un Palazzetto dello sport privato. Voluta dallo storico sindaco Giorgio La Pira, era una specie di grosso stabilimento con quasi quattromila studenti-operai, tutti maschi. Nel complesso era un fabbricone piuttosto cupo dove si studiava parecchio, ma si imparavano anche le realtà del lavoro industriale.
Giovanni cominciò ad andarci con la sua vecchia bicicletta, poi con l’altrettanto vecchio motorino, a sedici anni con la moto e finì con l’andarci in macchina. Insomma, crebbe mentre andava a scuola, molto più che negli otto anni precedenti. Perché questa volta non diventava solo grande, ma diventò uomo.
Studiò, oltre alle materie normali, tanta meccanica, tanta metallurgia, tutte le tecnologie, comprese quelle sperimentali. Fece tanta progettazione e tanto disegno tecnico. Ebbe finalmente modo di usare tutte le macchine utensili, dai trapani a colonna, ai torni, alle fresatrici. Gli insegnarono a saldare, a fondere e a limare il ferro, finché cominciò veramente a sentirsi un po’ metalmeccanico.
Nel frattempo cominciava ad affacciarsi quel “chissà cosa ci aspetterà domani”, che gli era venuto in mente qualche anno prima. Cominciò con la contestazione, che la si chiamasse giovanile o studentesca poco importa.
In quegli anni il disagio era dovuto al fatto di avere troppo poco, non come oggi dove il motto è “tutto e subito”. Giovanni invece non se la passava poi male nei rapporti con i genitori, soprattutto con Enrico aveva ben poco da contestare.
In ambito scolastico, invece, la situazione era molto diversa, ma non per motivi politici come poi cercarono di fargli credere. Gli studenti, proprio come gli operai, godevano di pochissimi diritti a fronte di doveri molto rigidi. Non c’erano ancora né le assemblee d’istituto né i consigli di fabbrica.
Il cambiamento nacque proprio dagli studenti, a rimorchio della contestazione degli hippy americani e di quella degli studenti francesi...
nel maggio del ‘68.
Dapprima timidamente, ma poi con sempre maggiore convinzione, gli studenti delle superiori e delle università accampavano il diritto di poter dire la loro, sulle questioni basilari che li riguardavano direttamente.
In tutto questo non c’era, ovviamente, niente di sbagliato. Solo che poi si esagerò per colpa di chi volle cavalcare il fenomeno per scopi politici... appunto.
Il centro, per così dire direzionale, del Movimento Studentesco era alla Facoltà di Lettere, ma anche l’ITI, forte di quattromila ragazzi, aveva da dire la sua. Erano talmente tanti che fu una fortuna avere a disposizione un Palazzetto dello sport, perché nell’Aula Magna non sarebbero mai riusciti a fare un’assemblea d’istituto.
La prima che organizzarono era ovviamente illegale e il preside chiamò la polizia, che li fece sgomberare per occupazione illegittima. Ma ormai le micce erano accese e niente riuscì a fermarli. Oltre all’occupazione degli istituti, le armi principali di cui disponevano gli studenti erano gli scioperi e i cortei di protesta in centro.
Fu proprio in occasione di una delle prime grandi manifestazioni, che aveva paralizzato mezza città, che le cose cominciarono a trascendere. E Giovanni c’era proprio nel mezzo, in una tarda mattinata d’ottobre, alla fine di una dimostrazione contro il Provveditorato agli Studi.
La tappa finale del corteo fu un sit in in via Cavour, di fronte alla Prefettura. Erano ancora talmente tanti che Giovanni, trovandosi a metà, rimase bloccato in piazza San Marco. Ma intanto la manifestazione era ormai praticamente finita, e Giovanni cominciò a salutare gli amici per avviarsi a riprendere la moto che aveva lasciato sui Viali.
La piazza dove si trovava ha una specie di piccolo giardino urbano nel centro, con aiuole, vialetti, siepi di bosso e panchine. Quell’area pedonale è circondata dalla sede stradale, in cui confluiscono altre cinque strade oltre a quella che era stata chiusa dal loro sit in. Fu proprio da queste cinque direzioni che all’improvviso furono accerchiati e assaliti – letteralmente – dalla polizia.
Tutt’a un tratto, nel fuggi fuggi generale, dalle cinque strade irruppero nella piazza le camionette dei “celerini”, che si misero a inseguirli anche tra le aiuole, passando sopra le siepi. Si erano aspettati tutta la mattina una qualche reazione, ma non di tale violenza. In fondo, loro non avevano neanche lanciato un sasso.
Giovanni si ritrovò col cuore in gola a cercare disperatamente una via di fuga, mentre alcuni studenti erano già a terra feriti. Dopo due o tre tentativi trovò un varco nella strada più piccola, quella che va verso il mercato di San Lorenzo. Appena si fu lasciata la piazza alle spalle, smise di correre. Cercò di darsi un contegno e di confondersi quanto più possibile tra la folla normale. Con un lungo giro raggiunse il viale dove aveva lasciato la moto e, ancora sconvolto, tornò a casa che erano le due passate.
Sua madre lo stava aspettando, preoccupatissima. Caterina aveva sentito delle cariche della polizia al Gazzettino Toscano di mezzogiorno, il giornale radio locale, dove avevano detto che c’erano stati diversi feriti e tanti arresti. E sapeva che suo figlio aveva partecipato alla manifestazione, perché Giovanni non ne faceva mistero.
Quando lo vide tornare a casa il sollievo scatenò l’adrenalina che aveva accumulato e scoppiò come una bomba.
«Sciagurato, ma vuoi farti ammazzare?» fu il grido di bentornato, e ancora...
«Tu a quelle cose non ci vai più!» la conclusione, dopo una serie di strilli isterici con cui gliene disse di tutti i colori. A Giovanni ci volle del bello e del buono per calmarla, ma ormai sapeva come prenderla per il ben della pace.
La rassicurò convincendola che a lui, di quelle “cose”, non gliene fregava un accidente. Mentre, invece, gli stava montando dentro una rabbia feroce, che generava la necessità impellente di darsi ancora più da fare. Mangiò velocemente qualcosa e, stavolta con una scusa, tornò all’Istituto per vedere cosa stava organizzando il Comitato permanente di agitazione studentesca.
Organizzarono dei picchetti davanti agli ingressi delle fabbriche, per parlare con gli operai. Il mattino dopo, di buon’ora, Giovanni andò nel luogo che gli era stato assegnato: l’ingresso operai delle Officine Galileo, a Rifredi, insieme ad altri tre o quattro studenti.
Non dovevano impedirgli di entrare e non avevano volantini da distribuire in silenzio, troppo facile. Volevano solo cercare di spiegare ai metalmeccanici, che le botte che avevano preso dalla polizia erano state anche per loro. Convincerli che stavano lottando anche per i diritti degli operai, e ottenerne il consenso o, quantomeno, la solidarietà. Ma l’unica reazione ai loro discorsi, quella mattina, fu qualche spintone perché si levassero di mezzo, condito da commenti sul tipo:
«Ma va’ a scuola, fannullone!»
e soprattutto da diversi:
«Se tu fossi i’ mi’ figliolo ti riempire’ di botte.»
...che gli fecero più male delle botte vere del giorno prima.
Evidentemente i tempi non erano ancora maturi, perché le due categorie si capissero. Da una parte c’erano ancora i padri-operai, che la pensavano come sua madre, e dall’altra i figli-studenti... e nacque il gap generazionale. Ma forse c’era già e aveva aspettato solo l’occasione per manifestarsi.
Poi Giovanni si accorse che i Comitati e le Assemblee erano sempre più in mano a un gruppo di studenti – a volte anche troppo grandi per esserlo veramente – che venivano chiamati “i cinesi” e che portavano tutti, una specie di giaccone verde col cappuccio, che si chiamava eskimo. Il loro livore anarchico di bassa lega stava trasformando le manifestazioni pacifiche, che aveva collaborato a organizzare e alle quali aveva partecipato, in qualcosa fatto solo per distruggere, senza preoccuparsi di costruire alternative migliori.
All’interno del gruppo cominciò a sentir parlare di “commissari politici” e la cosa cominciò a piacergli sempre meno. Quando fu poi evidente che l’eskimo era diventato una specie di divisa irrinunciabile, andò al mercato di San Lorenzo a comprarsi un giaccone doppio petto di velluto giallino a coste, col collo di pelo. Non è che si disimpegnò completamente, ma smise di frequentare certi ambienti.
Non gli andava proprio di lasciarsi condizionare.
Sapeva di essere troppo giovane e di avere ancora bisogno di linee guida, ma soprattutto riteneva indispensabile pensare con la propria testa. Sbagliare in proprio, eventualmente, ma senza la possibilità di poter dare le sue colpe a qualcun’altro.

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