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lunedì 16 luglio 2012


N     Quant’è bella giovinezza

1964, estate. Fin da quando ebbe quattordici anni, nei periodi di vacanza scolastica Giovanni lavorò per divertimento, in quella che era ormai diventata l’azienda di famiglia.
L’iniziale trasporto di automobili usate, che suo padre aveva messo in piedi con i fratelli rientrati dalla Sardegna, aveva avuto delle grosse evoluzioni.
Adesso lavoravano direttamente per la Fiat.
Enrico aveva preso in affitto dal Comune un grosso scalo merci: un enorme piazzale con due binari ferroviari che ci finivano dentro con un’ampia curva. Qui arrivavano da Torino interi treni speciali di lunghissimi vagoni a due piani, carichi di automobili nuove per la filiale di Firenze e per tutte le concessionarie della Toscana. Venivano scaricate, a marcia in dietro, dai vagoni ferroviari, stoccate a seconda della destinazione e infine consegnate con i camion a bisarca, che adesso erano diventati tanti.
In quel piazzale, la prima cosa che Giovanni imparò, fu ovviamente a guidare. All’inizio prendeva le macchine scaricate dal treno e le metteva nelle varie file, facendo poche centinaia di metri. Il secondo anno cominciò anche a caricarle sui camion. Fin qui era facile, perché tutto si faceva a marcia in avanti. Il difficile fu quando cominciò anche a scaricarle dal treno. A Torino le caricavano, ovviamente, a marcia in avanti, e poiché i vagoni non venivano girati, a Firenze andavano scaricate a marcia indietro. Guidare in retromarcia le macchine del piano di sotto non dava troppi problemi perché vedevi dove andare, ma quelle del piano di sopra erano un vero casino.
I vagoni non avevano nessun tipo di sponda o parapetto, e guidando all’indietro non si aveva alcun riferimento. Bisognava fare quasi quattrocento metri, a più di tre metri da terra e in curva, perché il treno seguiva ovviamente il binario, e non era facile. Comunque non venne mai di sotto, ma in compenso imparò a guidare benissimo, soprattutto a parcheggiare in retromarcia.
Quando ebbe diciott’anni e la patente, Enrico gli comprò una vecchia 500 usata. In pochi mesi la rimise a nuovo. Carrozzeria rosso-corsa senza i paraurti, tappezzerie interne in finta pelle nera, marmitta Abarth: diventò bellissima. Tra i suoi compagni dell’ITI, ma soprattutto con le ragazze, faceva un figurone. Nella sua classe, in quinta, la macchina ce l’avevano in pochi: un’altra 500, una Mini e una Diane.
Frequentava l’ultimo anno, quello del diploma, e del movimento studentesco non gliene fregava più niente, adesso doveva pensare a studiare!
Con Guido e Bruno, i due compagni di classe diventati i suoi più cari amici, quando erano previsti scioperi, manifestazioni o assemblee, si organizzavano per fare altre cose. Di solito passavano mezza giornata a studiare per l’esame di Stato in qualche bottega su per Monte Morello o per la Calvana. Ce n’erano un paio perfette di quelle botteghine di campagna. Panini buoni, qualche birra, tante sigarette... e studiavano per davvero. Ma ogni tanto bisognava anche distrarsi. La cosa più ovvia era andare a prendere qualche ragazza all’Istituto Tecnico Femminile, che tra loro definivano “la riserva di fica”. Poi, se era tempo bello, a Boboli, il giardino di Palazzo Pitti, altrimenti a chiudersi in qualche barrettino del centro, con la saletta col juke box e i divanetti nel seminterrato.
Un paio di volte, in occasione di assemblee d’istituto che sarebbero durate tutto il giorno, organizzarono gite lunghe. La prima volta, che era ancora inverno e la seconda in primavera avanzata.
In un gelido mattino d’inverno, partirono in quattro con quello che aveva la Diane. Quella buffa macchinetta francese che aveva le ruote grandi e strette, andava abbastanza bene anche sulla neve. Arrivarono fino in Secchieta, sopra Vallombrosa, dove c’è anche una pista da sci. Giocarono un po’ con la neve, come bambini, perché nessuno sapeva sciare, fecero una bella mangiata al rifugio e poi se ne tornarono a Firenze. Niente di particolare.
Qualcosa, invece, successe la seconda volta. Partirono in cinque, con la mitica 500 di Giovanni e la Mini di Bruno. In macchina con Giovanni c’era Guido, con Bruno altri due amici: destinazione mare!
Fecero tutta l’autostrada fino a Migliarino Pisano e andarono a Torre del Lago Puccini. In una bellissima giornata di fine aprile provarono anche a fare qualche tuffo in mare. Ma l’acqua era talmente gelata che neanche Giovanni, pur abituato al freddo mare sardo, riusciva a starci più di pochi secondi. Verso la fine della mattinata, dopo essersi asciugati al sole, si rivestirono e decisero di andare a cercare qualcosa da mangiare.
«Vienimi dietro Bruno, » disse Giovanni,
«stamani ho visto una bottega aperta sul viale dei Tigli.»
Rimontarono sulle macchine e partirono, affamati come si può esserlo a vent’anni. Davanti la 500 di Giovanni con Guido e dietro la Mini di Bruno con gli altri due, per ritrovare quel posto.
«Mi ricordo che era sulla sinistra, quando siamo passati stamani, » disse a Guido,
«quindi ora è a destra. Tieni bene d’occhio dalla tua parte.»
Sul vialone dritto viaggiavano spediti, sui settanta chilometri l’ora. Venendo dalla parte opposta, Giovanni quella botteghina l’aveva vista da lontano. Ma da questa parte la si trovava all’improvviso, perché rimaneva fino all’ultimo nascosta dagli alberi. I tigli, appunto, che danno il nome al viale.
«Eccola, gira!» urlò tutt’a un tratto Guido, e Giovanni, istintivamente, inchiodò. E Bruno dietro, gli entrò dentro pieno, dopo una frenata disperata. Strano, la sola cosa che Giovanni pensò, in quegli attimi, fu che le lamiere che si accartocciano non fanno un rumore metallico, ma sordo e cupo. Dopo un salto in avanti erano fermi e Giovanni in un attimo, fece il punto.
«Guido stai bene? Io non mi sono fatto niente.»
«Ohi... ohi che botta. Sto bene... sto bene.» rispose l’altro tenendosi il collo un po’ acciaccato dal colpo di frusta. E scesero a controllare.
Anche Bruno stava scendendo di macchina incazzato come una bestia.
«Porca puttana, ma che cazzo fai stronzo... » sbottò urlando,
«ti sei fermato all’improvviso!» Ce l’aveva, ovviamente, con Giovanni, aveva bisogno di sfogarsi e aveva pure ragione.
«Scusa, ma Guido l’ha vista quasi troppo tardi per girare, e io stupido ho frenato di brutto per provarci.»
«E io ti ero troppo vicino, accidenti a me. Sì, siamo proprio stronzi... » convenne Bruno,
«vediamo che cazzo è successo alle macchine, dài.» ...un bel casino.
La Mini, bella dura, aveva un faro rotto e tutto il paraurti d’acciaio piegato. Ma il radiatore era sano e poteva camminare. La 500, invece, era andata. Il motore posteriore è ancorato centralmente sulla traversa del cofano, che dovrebbe essere protetta dal paraurti. Ma i paraurti Giovanni li aveva tolti, come nelle macchine da corsa, e la botta l’aveva presa tutta la traversa, che si era vistosamente piegata. Spostando in dentro tutto il motore, tanto che non giravano più nemmeno le ruote.
«Porca troia... e ora come si fa.» fu la domanda espressa o pensata da tutti e cinque. Ma erano quasi “periti industriali” e poi avevano l’arte di arrangiarsi.
Spinsero a forza la 500 col culo vicino a un albero. Legarono la corda di traino che Bruno aveva in macchina, alla traversa della 500 e poi all’albero, lasciandola lunga. Poi spinsero tutti con forza la macchina finché di scoppio la corda, andando in tensione, diede un bello strappo. Con tre o quattro di queste faticose operazioni, riuscirono a ritirare indietro traversa e motore, abbastanza da far allineare un po’ i semiassi che li collegano con le ruote.
Così le ruote giravano ma il motore no, perché si era piegato tutto il carter del raffreddamento ad aria, e la ventola ci picchiava contro ed era bloccata. Non si poteva mettere in moto. Era ormai quasi l’una, dovevano tornare a Firenze e possibilmente farla franca, per non passare da idioti. C’era la corda di traino...
Sembrava una vera pazzia, ma dovevano portare la 500, fino a Firenze, a rimorchio della Mini. E non potevano nemmeno fare l’autostrada, perché lì è proibito trainarsi. Fecero il punto e decisero per la strada più lunga, ma pianeggiante, per non sforzare troppo la Mini. Li aspettavano comunque, più di centoventi o forse centotrenta chilometri. Per Ulisse l’Odissea fu una passeggiata.
Mangiarono qualcosa velocemente, alla botteghina, poi prepararono tutto. La corda legata nei punti giusti e lunga il giusto, con uno straccio appeso nel mezzo come prevede il Codice della Strada. Quattro sulla Mini, e Giovanni da solo alla guida della 500, per essere più leggero.
Per fortuna le macchine di allora si potevano guidare anche a motore spento. Con quelle d’oggi, dotate di servofreno e servosterzo, non sarebbe stato possibile.
Giovanni era abbastanza pratico, perché spesso le vetture nuove avevano la batteria a terra e nel terminal le dovevano trainare.
«Allora Bruno... » cominciò,
«...parti sempre molto piano.»
«E che vuoi mi metta a correre... mica so’ scemo.» lo interruppe l’altro.
«No, no, dicevo... soprattutto niente strappi. Sennò sbarbiamo tutto.»
«Certo, certo.»
«E stai attento alla frizione. Poco gas e lasciala subito, altrimenti la bruci.»
«Ok, senza farla slittare.» Bruno non era stupido.
«Per dirti quando sono pronto a partire dò un colpo di clacson, » ...riprese,
«e quando voglio fermarmi suono due volte.»
«Bene... » convenne l’amico.
«Quando invece vedi che c’è da rallentare o da fermarsi, suona due volte tu.»
«Perché?» chiese l’altro, ma Giovanni continuò
«...e fallo con più anticipo che puoi. Perché devo essere io che comincio a frenare.»
«E poi?»
«Quando senti che ti sto rallentando, allora freni anche tu. Chiaro?»
«Chiaro, hai ragione. È meglio non fare la seconda: che tu tamponi me!»
«Bravo... allora, dài, proviamoci.» e montarono sulle rispettive macchine, con una sorta di paura tanto grande quanto inconfessata. Partirono bene, si avviarono con circospezione per fare un po’ di pratica e per affiatarsi, ma non ebbero problemi.
Tutto filava liscio.
Dopo pochi chilometri cominciarono a viaggiare abbastanza spediti. Però fu un pomeriggio molto lungo e dovettero fermarsi un sacco di volte.
O perché alla Mini bolliva l’acqua sotto sforzo. O perché non ne potevano più e dovevano sgranchire le gambe e la tensione. Ci vollero più di quattro ore e Giovanni, da solo, finì un pacchetto di Marlboro e stava cominciando a dare i numeri. Quando finalmente, furono vicini a Firenze, suonò due volte il clacson e piano piano accostarono e si fermarono per l’ennesima volta.
«Ora bisogna decidere come raccontarla.» esordì quando furono tutti a terra.
«Dove diciamo che s’è fatta la frittata...?» chiese Bruno.
«Più vicino possibile al mio piazzale... » propose Giovanni,
«così telefono a Francesco e ci facciamo venire a prendere come se fosse appena successo.»
Sì, proprio “quel” Francesco, suo cugino, che aveva smesso di studiare e lavorava al terminal a tempo pieno.
Scelsero la strada giusta, vicina abbastanza e con una cabina telefonica. Anche stavolta andò tutto liscio. Portarono le macchine al piazzale, fecero la denuncia all’assicurazione. Giovanni si mise d’accordo con Enrico – ormai lo chiamava per nome – e fissarono col loro carrozziere per ripararle tutte e due. Anche se era Bruno che aveva tamponato, in fondo Giovanni sapeva di avere più colpa dell’amico. Poi Bruno riaccompagnò gli altri ragazzi a casa, e quella giornata incredibile ebbe fine.
Solo a Francesco la raccontò giusta, che si erano tamponati a Torre del Lago, ma non ci voleva credere che erano tornati a Firenze in quel modo!
«Tu sei pazzo.» concluse scotendo la testa, quando capì che era vero.
«Lo so, grazie!» sogghignò Giovanni soddisfatto.
Un po’ pazzo lo era davvero. Mancavano solo due mesi all’esame del diploma, e lui si stava incasinando su un sacco di fronti.
In quel periodo aveva cominciato a stare seriamente con Diana, la sorella di Marco, un suo amico che faceva ragioneria e che conosceva fin da quando erano bambini.
Ma negli ultimi giorni, alla “riserva”, aveva conosciuto Roberta e dopo un paio di “forche” insieme era nato del tenero anche con lei.
Doveva darsi una calmata e pensare agli esami, anche se in fondo si sentiva abbastanza tranquillo. Quando uscirono le materie, e i programmi erano ormai fatti, con Bruno e Guido, si dedicarono a un ripasso generale, facendo base in quella botteghina su per Monte Morello, dove almeno si studiava al fresco. E ai primi di luglio prese finalmente quell’accidente di diploma di perito industriale che gli interessava meno di cinque anni prima. E fece anche un figurone con la commissione, soprattutto per la prova scritta d’italiano. Anna, la sua vecchia “prof” delle medie, ci aveva visto giusto.
Ma adesso era tempo di prendersi una meritata vacanza. Passò l’agosto al mare con Diana, non da soli purtroppo, ma con suo fratello e tutto il resto, poi si buttò a capofitto nel lavoro.
Enrico era, come al solito, inesauribile. Negli ultimi anni aveva allargato il raggio d’azione dell’azienda ai trasporti eccezionali. Di questo nuovo settore, molto particolare, si occupava tecnicamente suo zio Antonio. Giovanni gli si affiancò per imparare. Si trattava di trasportare tutto ciò che è di particolare ingombro o peso. A volte grandi imbarcazioni da diporto, ma più spesso macchinari industriali, tipo trasformatori o turbine. E quasi sempre li dovevano anche sistemare esattamente al loro posto, con un particolare sistema di pistoni idraulici, rulli e rotaie, che veniva definito “movimentazione industriale”. Era più interessante di quanto si fosse aspettato, e Giovanni si mise a fare per davvero il perito tecnico.
Passò tutto l’inverno in giro con lo zio a fare sopralluoghi – prima – e assistenze tecniche – durante – i trasporti eccezionali e le movimentazioni industriali. Fece anche qualche missione da solo, di quelle più semplici, tipo le imbarcazioni da diporto non troppo grandi.
Ma soprattutto cominciò a costruire quei rapporti personali con alcuni dei dipendenti, che negli anni successivi gli avrebbero permesso di creare la sua “squadra” di autisti e di operai, con la quale avrebbe girato e rigirato mezza Europa, e non solo.
In primavera gli arrivò la cartolina precetto. Doveva partire giovedì nove giugno e presentarsi a Nocera Inferiore in provincia di Salerno, al Centro Addestramento Reclute (CAR), la mattina di venerdì dieci. Si prese un paio di mesi di ferie, prima del “militare”.
Aveva una nuova automobile, una strana berlinetta inglese con un bellissimo cruscotto di radica, quasi d’epoca.
Aveva una fidanzatina ufficiale, Diana, ancora minorenne come lui, ma con tre anni di meno.
Aveva ancora Roberta, che era della sua età e faceva la segretaria d’azienda, con la quale continuava a vedersi ogni tanto.
Aveva sfortuna, ebbene sì.
Ma fu anche un po’ coglione...! Si fece beccare da Diana, e prima di partire rimase da solo.

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