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lunedì 16 luglio 2012


O     Stellette

1969, estate. Il nove di giugno, a prendere quel maledetto treno, lo accompagnò solo Francesco.
Con Diana e Roberta era scoppiato proprio un bel casino.
Tre giorni prima era uscito con Roberta...
Diana si trovava, per caso, in una parte della città dove di solito non capitava mai, e lo vide passare con la sua strana e riconoscibilissima macchina inglese, insieme a un’altra, che ovviamente non conosceva.
Ne fu subito gelosa, perché Giovanni le aveva detto che quel giorno doveva esser fuori per lavoro. La sera ne parlò con suo fratello Marco, che invece Roberta l’aveva conosciuta un paio di mesi prima e piaceva anche a lui.
Marco non sapeva che nel frattempo Giovanni ci si era messo insieme, ma dalla descrizione che gliene fece sua sorella la riconobbe, la ricercò e le raccontò tutto. Il dolo era evidente, e ben poche le scuse che Giovanni riuscì ad accampare. Ne erano venute fuori scenate su tutti e due i fronti, e il tempo che aveva a disposizione non gli bastò per rimediare, né con l’una né con l’altra.
Era stato un coglione, però si sentiva un uomo e non voleva farsi accompagnare al treno dai genitori. Così alla Stazione lo portò suo cugino, e i saluti furono quanto di meno commovente si possa immaginare.
«Sei proprio pazzo, Giovanni. Buona fortuna.»
«Ciao Francesco, mi raccomando... » ma non aggiunse altro, perché non sapeva cosa raccomandargli. Poi il treno finalmente partì.
In un afoso pomeriggio di giugno, solo come un cane in uno scompartimento polveroso, Giovanni ebbe molto da rimuginare. Capì che a questo punto con Roberta non aveva più chances. Marco era stato anche furbo, a sputtanarlo: ora per consolarla aveva la strada spianata e infatti – seppe in seguito – non se la lasciò scappare. E poi... il pensiero di Diana lo faceva rimescolare e commuovere.
‘La conosco sin da bambina!’ pensò con tenerezza.
Anche se aveva tre anni meno di lui erano cresciuti insieme, in tutti i sensi. E già ne sentiva la mancanza perché le voleva bene davvero. Decise che avrebbe fatto di tutto per rimediare alla stronzata e farsi perdonare.
Tirò fuori il blocco che aveva in valigia e si mise a scriverle. La prima di una serie quasi infinita di lettere che le avrebbe mandato nei quindici mesi successivi. Ma poiché, con una penna in mano, Giovanni era più efficace che con le parole, di lettere di scusa gliene bastarono poche. Dopo nemmeno un mese erano già lettere d’amore, sia le sue sia quelle di Diana.
Intanto il treno aveva passato Roma ed era arrivato a Napoli Centrale. Qui aveva dovuto aspettare un Locale che facesse tutte le fermate. Ripartì per Nocera Inferiore dopo aver mangiato un paio di sfogliate e di babà al buffet della stazione. Ormai era già notte fonda, e per fare tutti i paesini del napoletano ci vollero un paio d’ore. Quasi alle tre del mattino scese a Nocera, in una stazioncina assolutamente deserta. Sul foglio di viaggio c’era scritto che il pulmino della caserma passava dalla stazione a raccattare le reclute alle sette. Aveva bisogno di dormire qualche ora e cercò la sala d’attesa. L’unica stanza aperta in quella desolazione: fu facile trovarla.
Aprì la porta a vetri ed entrò in un ambiente squallidissimo, illuminato da una grande lampadina appesa a un filo al centro della stanza. Invece delle solite poltroncine, tipo cinematografo, messe giro giro c’erano solo delle sedie sgangherate appoggiate ai muri e un grande tavolo nel mezzo, proprio sotto la luce. Ma la cosa che lo lasciò allibito fu un ragazzone arruffato che dormiva sdraiato a pancia all’aria sul tavolone, russando sonoramente, nonostante la luce gli picchiasse direttamente negli occhi.
Cercò di allungarsi su quattro seggiole in fila e poco mancò che volasse per terra. Il pavimento era troppo sporco per sdraiarcisi. Troppa la luce, e poi quel cristo che russava come un trombone. Sistemò la valigia in un angolo, tornò fuori e si accese una sigaretta. Avrebbe fatto giorno presto, tanto valeva vedere l’alba. Quando cominciò a fare luce aveva già fumato mezzo pacchetto. Rientrò per prendere il suo bagaglio e trovò l’altro che, accovacciato sul tavolo, piangeva come un bambino, con la faccia fra le mani.
«Ciao, io sono Giovanni... » si presentò,
«e tu come ti chiami?»
Ma l’altro sembrava non averlo visto, anche perché non aveva tolto le mani dal viso! Allora Giovanni si avvicinò, gli mise una mano su una spalla e a voce alta...
«Ooo Ooo... buongiorno, eh!» cercò di scuoterlo.
«Ma chevvoi, ma chissei. Mortacci... » era vivo ed era romano, anzi proprio romanaccio.
«Sono Giovanni di Firenze, te l’ho già detto, e tu chi sei?»
«So’ Massimo de Tivoli, ciao» rispose alla fine il tipo.
«E perché piangi Massi’?»
«Pecché io qui nun ce devo sta’ » ...duro l’amico, pensò Giovanni, e aggiunse:
«Dài, andiamo a cercare un caffè, che a quest’ora ci fa anche bene!»
Lo tirò su in piedi e lo trascinò fuori quasi di forza. Nella piazzetta della stazione un lercio bar stava aprendo in quel momento. Giovanni ci si diresse rimorchiando un Massimo ancora ricalcitrante per il sonno e la disperazione. Per fortuna da quelle parti le macchine espresso non le spengono mai. Quando furono al secondo caffè, e all’ennesima sigaretta di Giovanni – ché Massimo non fumava e anzi... si scandalizzò che lui lo facesse – videro arrivare il pulmino verde dell’Esercito. E fu subito “naia”.
La caserma era enorme.
La caserma era un cesso.
La caserma era un enorme cesso sporco... come tutto quello che aveva visto finora di quel posto. E il seguito sarebbe stato anche peggio, perché a Nocera Inferiore l’acqua era razionata a tal punto che si faceva prima a dire che non c’era. Anche in caserma, nei tre mesi che ci rimase, l’unico modo per lavarsi fu – una volta la settimana! – il turno di cinque minuti in un grosso rimorchio attrezzato a docce da campo, attaccato a un camion cisterna. Per Giovanni, fanatico della pulizia personale peggio di un gatto, fu dura, molto dura.
Ma un poco riuscì a organizzarsi.
Comunque i primi tre giorni di caserma furono strani. Era venerdì quando arrivò, gli dettero solo una tuta mimetica e una branda e fino al lunedì mattina non vide più nessuno, a parte quelli appena arrivati come lui e Massimo.
Ciondolavano senza niente da fare tra la camerata e lo spaccio. Telefonò a suo padre per dirgli che andava tutto bene, e scrisse un altro paio di lettere a Diana. Ma la sua occupazione principale fu quella di consolare Massimo, che lì proprio non ci voleva rimanere.
E la cosa buffa successe il lunedì mattina, quando li inquadrarono. Quel figlio di una buona donna ci riuscì per davvero ad andarsene. Massimo raccontò che faceva atletica e arti marziali. Rischiò di essere assegnato a un corpo speciale, ma ebbe fortuna e dopo un paio di settimane lo mandarono a un battaglione atleti vicino a Roma. Praticamente tornò a casa. Ma non si persero. Ancora oggi, dopo quarant’anni, si telefonano almeno una volta al mese, anche se Massimo vive ormai da vent’anni a San Francisco, negli Stati Uniti.
Giovanni invece si fece tutto l’addestramento.
Marce, poligono di tiro, fucile Garand, bombe a mano Srcm, mitragliatrice MG. E ci prese pure gusto. Dopo tre volte riusciva a smontare e rimontare il Garand a occhi chiusi. Non per niente era un perito tecnico!
Intanto Enrico gli aveva mandato giù un po’ di abiti civili, non in caserma ovviamente, ma a Pagani, il paese attaccato a Nocera, dove c’era l’ennesimo commerciante di auto usate, Beppe, un amico. Fece base da lui.
La domenica mattina Beppe andava a prenderlo e, dopo che s’era dato una lavata e cambiato, gli prestava una macchina per la giornata. Giovanni ripassava di nascosto da Nocera a raccattare qualche altro commilitone, e poi andavano a giro per la costiera amalfitana. In fondo era estate e aveva trovato il modo di farsi anche un po’ di vacanze al mare, tanto per non cambiare.
Al Giuramento vennero, da Firenze, Enrico, Caterina, Anna – che ormai era quasi una signorina – e la vecchia nonna Luisa. In fondo a qualche cassetto di Caterina ci sono ancora le foto ricordo.
A fine agosto, finalmente, il CAR finì. Ora Giovanni non era più una recluta ma un soldato addestrato, anche se da un caporale analfabeta, e non sapeva dove lo avrebbero mandato.
Lo mandarono a Roma. Senza alcuna richiesta o raccomandazione. Perché in effetti non era una destinazione di favore, anche se alla fine Giovanni ci si trovò benissimo. Ma lui ormai aveva imparato a trovarsi bene dappertutto.
L’8° reggimento Lancieri di Montebello è un reparto storico e d’elite, tuttora operativo e rappresentativo... tutto fuorché un posto dove imboscarsi.
Quando Giovanni ci arrivò, rimase affascinato dallo stile retrò della vecchia caserma ottocentesca. Quando poi si rese conto che il tutto era anche perfettamente efficiente, il suo pragmatismo lo fece sentire a casa.
Lo assegnarono all’ufficio informazioni dello squadrone comando. Scoprì solo in seguito, di dipendere direttamente dai servizi segreti delle forze armate, che di lì a qualche anno si sarebbero chiamati SISMI.
Questo lo esonerò dalle guardie d’onore al Quirinale e all’Altare della Patria, ma non dal montare di guardia, una infinità di volte, al perimetro della caserma. Perché in questo caso rimaneva comunque a disposizione dell’Ufficio. Un anno al Montebello cambiò completamente i suoi parametri di vita, o forse fece venire fuori quelli veri, che erano stati finora latenti.
Da Raimondo, il suo capitano-capo ufficio, imparò un motto che avrebbe fatto suo per sempre:
“Incazzarsi, bisogna!”
Che vuol dire l’esatto contrario di quel che sembra. Nel senso che non corrisponde assolutamente al “perdere le staffe” dell’equitazione, ma semmai al ...riuscire a costringere cuore tendini e nervi a servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti, e a tenere duro quando in te non resta altro che la volontà che dice tieni duro... della poesia di Kipling.
Raimondo non c’era quasi mai, sempre impegnato e perso dietro i concorsi d’equitazione con la sua splendida purosangue Margutta, insieme ai fratelli D’Inzeo.
Quando si fu fatto un po’ d’esperienza, Giovanni divenne quasi il capo ufficio di sé stesso. Raimondo gli dava le disposizioni e poi gli lasciava carta bianca. Giovanni faceva il dovuto e spesso lo firmava anche, ovviamente non col suo nome.
Come, ovviamente non col suo nome, si firmò in seguito anche le licenze e i fogli di viaggio. Do ut des. Filò tutto liscio come l’olio, compreso un episodio che è poi entrato di diritto nella storia della Prima Repubblica.
Una notte fra il sette e l’otto dicembre.
Erano giorni e giorni che Giovanni, stavolta sotto il controllo diretto non solo di Raimondo ma anche del colonnello superiore, preparava una specie di esercitazione che doveva coinvolgere tutto il reggimento. Ma quando, alle tre di notte, suonò finalmente l’allarme, al suo “posto di combattimento” era da solo. Il giorno prima Raimondo si era raccomandato più volte con un sinistro avvertimento, che lo rendeva inquieto:
«Stai molto attento, Giovanni... » gli aveva detto e ripetuto,
«non prendere nessuna iniziativa e attieniti scrupolosamente al programma dell’esercitazione qualunque cosa succeda.» Ma soprattutto...
«Tu non sai niente, ricordalo, sei soltanto un soldato semplice e puoi non sapere.»
L’ultima parte era più un consiglio che un ordine, e questo gli suonava abbastanza minaccioso, anche perché, in realtà, lui non sapeva niente per davvero.
L’“esercitazione” consisteva in un’operazione di presidio, a difesa della capitale. Tutte le forze armate di stanza a Roma dovevano costituire un anello armato, che avrebbe isolato la città da interventi esterni. Loro dovevano presidiare, come punto di accesso, una località sulla via Salaria.
Sugli ordini che aveva trasmesso agli squadroni del reggimento, si specificava che le uniche forze armate(?) che potevano oltrepassare il blocco, erano quelle della Guardia Forestale.
Giovanni aveva intuito che non si trattava solo di un’esercitazione, ma non ci capiva un accidente, e ormai si era abituato a non fare domande.
‘Che cazzo c’entra la Forestale?’ chiedeva però a sé stesso, visto che come Corpo non dipendeva nemmeno dal Ministero della Difesa.
E continuava a chiederselo, in quelle prime ore del mattino di quell’otto dicembre mentre, nella torretta dell’M113 – il piccolo corazzato del quale era al comando pur essendo soldato semplice – aspettava, come osservatore. Aspettarono tutti invano. La Forestale non arrivò. Quando fece giorno arrivò invece per radio, direttamente dallo Stato Maggiore, l’ordine di rientro per tutti i reparti.
Il colpo di stato del principe Junio Valerio Borghese, era abortito. Questo lo seppe solamente molti anni dopo, ma in quel momento pensò che finalmente la buffonata era finita. Gli avevano rotto i coglioni per tanti giorni, e poi non succedeva niente? Ci rimase anche male... almeno avrebbero potuto lasciarli dormire!
Ma tant’è, rientrarono tutti nelle rispettive caserme e, ufficialmente, fu solo un’esercitazione. Come l’ultima che fece a Capo Teulada, in Sardegna.
Erano i suoi ultimi mesi prima del congedo, avrebbe potuto passare la mano a quelli arrivati dopo di lui. Ma un’esercitazione interforze, che impegnava la cavalleria corazzata, cioè loro, l’artiglieria e l’aviazione, e per di più in Sardegna, non la mollò a nessuno.
Prima che il reggimento si trasferisse a Capo Teulada, con un gran dispiegamento di navi e aerei da trasporto, la preparazione in ufficio, a Roma, fu estremamente lunga e minuziosa, perché il reparto che la organizzava erano proprio loro, i Lancieri.
Dovevano conquistare una “quota” nel poligono, cioè una collina, con l’appoggio dell’artiglieria pesante campale dell’esercito e dei caccia bombardieri dell’aeronautica.
Queste forze di supporto avevano il compito di cannoneggiare e bombardare l’obiettivo prima che la cavalleria corazzata lo attaccasse. Come sempre in questo tipo di esercitazioni i bersagli sono costituiti da un grande quadrato di circa trenta metri di lato, realizzato sul terreno a scacchi bianchi e rossi.
In una mattinata di fine luglio, nella quale il programma non prevedeva altre attività nel poligono, Giovanni partì dalla sede del comando di Teulada con due M113. Due rottami di cingolato che venivano usati quasi solo per raccogliere i bidoni dell’immondizia, e che non avevano né armamento, né radio, né interfoni.
Nel primo c’era Giovanni, che dalla torretta dava le indicazioni al pilota su dove andare. E dentro una decina di soldati d’artiglieria per la manovalanza. Il secondo, con solo il pilota a bordo, era stracarico di pannelli di cartone di un metro quadrato e di bidoni di vernice bianca e rossa. Dopo un paio d’ore di piste, raggiunsero il fianco della collina che costituiva l’obiettivo, e cominciarono a realizzare il bersaglio. Nel caldo soffocante della giornata estiva fu una faticaccia bestiale. A fine mattinata avevano quasi finito tutto il lavoro, rimaneva solo da ricaricare i bidoni di vernice e i pannelli di cartone avanzati.
Tutt’a un tratto il silenzio, che li aveva circondati per tante ore fu rotto da uno strano suono. Una specie di fruscio che aumentò in un attimo, fino a diventare assordante mentre passava sopra le loro teste. Era il rumore di due proiettili d’artiglieria, che andarono a esplodere circa mezzo chilometro a Sud della loro posizione. Per una frazione di secondo rimasero allibiti, poi Giovanni applicò l’incazzarsi bisogna. Capì che si trattava di una doppia salva “a forcella”, e poiché la prima era andata troppo lunga, la successiva sarebbe stata giusta o troppo corta. Quindi non potevano rimanere lì o tornare indietro. La zona più sicura era quella dove erano caduti i primi colpi.
Fece salire di corsa tutti i soldati sul primo cingolato e partirono verso Sud a rotta di collo, lasciando sulla collina tutto il resto. Mentre si allontanavano, la salva successiva fu, effettivamente, troppo corta e cadde molto più lontano.
Allora si fermarono un attimo.
«Ragazzi... » disse Giovanni stendendo la mappa di quella zona del poligono,
«noi siamo qui, a Sud del bersaglio, vedete?» e indicò il punto stimato,
«Tutte le piste per tornare al comando traversano la potenziale linea di fuoco dell’artiglieria.» mostrando la mappa ai due piloti...
«Io propongo di andare ancora a Sud e aspettare le cinque del pomeriggio. A quell’ora tutte le attività addestrative finiscono e siamo sicuri che non ci sparano più addosso.»
Erano tutti soldati semplici e ovviamente Giovanni non poteva dare ordini, ma solo lui e i due piloti-carro erano Lancieri, e i Lancieri avevano il comando dell’esercitazione. I soldati dell’artiglieria furono immediatamente tutti d’accordo. Guardò ancora un attimo la mappa, poi la passò al pilota del suo cingolato,
«Guarda... » gli indicò,
«se arriviamo in questo punto, due chilometri a Ovest siamo sul mare.»
«È vero!» convenne l’altro.
«Allora andiamo?» chiese Giovanni rivolto a tutti.
Ma la domanda fu superflua, erano già tutti pronti. Trovandosi nella parte più a Sud del poligono, quella protesa nel mare, ebbero da scansare qualche proiettile inesploso delle artiglierie navali, ma arrivarono incolumi alla costa.
Finalmente, il vecchio, caro mare della sua Sardegna, e pure parecchio agitato. Trovarono una minuscola spiaggetta di ciottoli, si misero tutti in mutande e fecero il bagno. Dopo quella giornata da cani, di polvere, caldo e cannonate, si sentirono rinascere e passarono un paio d’ore in un lampo. Prima di ripartire Giovanni volle fare il grande e andò a tuffarsi dall’alto di uno scoglio, nell’onda in arrivo. Si ritrovò in un vortice impazzito di schiuma e aspettò l’onda successiva per farsi riportare su e risalire. Ma la risacca forte lo fece sbattere un paio di volte contro gli scogli, prima di riuscire ad aggrapparcisi e venirne fuori.
Ne ricavò due ginocchia sbucciate, ma non era la prima volta che questa cosa gli succedeva in maniera strana, in Sardegna. In un certo senso anche stavolta ne andò fiero, come da bambino a Òschiri. Gli altri non avevano avuto il coraggio, o l’incoscienza, di buttarsi da quello scoglio.
Tornarono al bersaglio realizzato la mattina, che non era stato colpito dalle cannonate, recuperarono l’altro cingolato e i materiali avanzati, e ripresero la via più breve per risalire a Nord, verso il comando. Quando furono circa a metà strada Giovanni, dalla torretta, cominciò a vedere in lontananza dei nuvoloni di polvere che si alzavano dalle piste, che in quella zona interna del poligono, andavano in tutte le direzioni.
«Cercano noi!» fece appena in tempo a gridare al suo pilota. E si ritrovarono faccia a faccia con una camionetta che gli veniva incontro. Prima ancora che si fosse fermata del tutto saltò giù, trafelato, il suo capitano.
Anche Giovanni scese dal cingolato, ostentando una calma che in realtà non aveva, e si fronteggiarono.
«Ma dove cazzo eravate finiti?» ...il capitano era veramente incazzato, ma in senso negativo stavolta, contrariamente al suo motto.
«Frena, Raimondo... » per la prima volta lo chiamò per nome dandogli del tu, ma nessuno li sentiva e poi, ormai stava per congedarsi,
«credo di aver salvato capra e cavoli, dovresti ringraziarmi... » e ancora, prima che l’altro potesse ribattere,
«...tu lo sapevi bene dov’ero. Perché cazzo hanno cominciato a sparare? Abbiamo rischiato di essere presi pieni!» ...tirò il fiato...
«Se non mi levavo velocemente dai coglioni, ora raccattavi i pezzi.» stava cominciando ad avere la meglio...
«Dove sei andato?» ...e Raimondo cominciava a calmarsi.
«Verso Sud, lontano dalla linea di fuoco.» e gli spiegò le motivazioni.
«E poi, per tutto questo tempo?» chiese Raimondo, quasi rabbonito.
«Al mare, ce lo siamo meritato!» concluse senza pudore. Il capitano stette qualche secondo in silenzio, poi si guardò attorno. Gli altri erano rimasti tutti sui mezzi.
«Hai ragione Giovanni... ben fatto soldato.»
«Raimondo... non avevamo nemmeno la radio.» Giovanni rincarò la dose, tanto per essere sicuro di pararsi il culo.
«Lo so... » e sibilò una bestemmia fra i denti.
«Morta lì, Raimondo. Niente inchieste né rapporti?» E sperò di non aver tirato troppo la corda.
«Ci penso io col comando. Tranquillo. Ora rientriamo.»
E fu finita lì. Se andate a ricercare nelle memorie storiche annuali del comando di Capo Teulada, di quell’episodio non c’è alcuna traccia. Raimondo fu di parola.
Quindici giorni dopo, quando furono ritornati a Roma e l’esercitazione ebbe il plauso dello Stato Maggiore, Giovanni fu congedato. Prima di partire passò dal suo ex ufficio. Lui se ne stava andando e quindi Raimondo c’era.
Si stinsero la mano e si abbracciarono, in silenzio. Non ci fu bisogno di troppe parole:
«Ciao Giovanni... »
«Ciao Raimondo... » furono sufficienti a esprimere la riconoscenza e il rimpianto che i due sentivano. Avrebbero voluto continuare in quel rapporto che non era più, da tempo, di subordinazione ma di complicità. Invece sapevano che le loro strade si separavano e che non si sarebbero mai più rivisti.
Ma erano soldati...

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