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lunedì 16 luglio 2012


P     The Seventies

1971, estate. Tornare a casa fu una sensazione abbastanza strana. Specialmente quell’anno trascorso a Roma, lo aveva cambiato completamente. Il Giovanni contento di essere pazzo, partito quindici mesi prima, non sarebbe mai più ritornato.
Lo aspettavano... la sua donna, Diana, che ormai non era più solo la fidanzatina, e il suo lavoro, che ormai non era più solo un gioco. E ovviamente, la sua famiglia, la sua casa, la sua camera. Tutte le sue vecchie abitudini... ma tornò un’altra persona.
Tutto e tutti dovettero prendere atto che era partito un ragazzetto e tornato un uomo. Una cosa assolutamente naturale, e probabilmente nessuno ci fece neanche troppo caso. Quello per cui fu più duro dovercisi abituare, fu sicuramente Giovanni.
Le cose che più gli erano sembrate insopportabili all’inizio della vita militare, ora quasi quasi gli mancavano. Ma la vita corre e di tempo per cullarsi nei ricordi ne ebbe pochissimo. Intanto dovette procurarsi subito una nuova automobile. La strana e vecchissima berlinetta inglese aveva reso l’anima in una delle ultime fughe che aveva fatto da Roma a Firenze, per stare qualche ora con Diana, e non conveniva ripararla.
Comprò una A112 nuova e fece il primo tagliando, quello dei mille chilometri di rodaggio, a Catanzaro il giorno dopo averla ritirata. Il mese successivo fece il secondo, quello dei diecimila chilometri, a Bolzano. Di questo passo non ebbe molto tempo nemmeno per annoiarsi. In compenso però, di giorno e di notte, passava una serie impressionante di ore, in macchina da solo. Aveva tempo quindi – anche troppo – per pensare e per ascoltare musica.
Guidando da solo soprattutto durante le ore notturne, letteralmente consumò per l’uso, il nastro della cassetta Piccolo grande amore di Claudio Baglioni. È banale riconoscersi nelle canzoni, se ne rendeva conto. Ma in quel caso le circostanze non potevano essere casuali. O Baglioni era stato talmente paraculo da aver toccato dei tasti emozionali che andavano bene per tutti, ma non gli sembrava possibile, o il caso era veramente particolare.
Piazza del Popolo gli ricordava la sua piazza San Marco con le cariche della polizia. Il piccolo grande amore con la maglietta fina così stretta al punto che... senza ombra di dubbio la sua Diana. La paura e la voglia di essere soli era stata la loro paura quando, finalmente, si erano rivisti dopo la bufera. Porta Portese è Porta Portese, il pazzesco mercatino di Roma dove andava tutte le volte che poteva. Anche se ormai non ci andava più.
Insomma, tornava tutto in maniera impressionante e nel vigile torpore della forzata immobilità al volante, si convinse realmente che quelle canzoni parlassero di lui. Anzi di Diana. Tutto gli parlava di lei, perché non pensava ad altro.
Intanto dovette sopportare fino all’inverosimile le interferenze di Caterina, che in più di un’occasione era riuscita a essere talmente antipatica con Diana da rischiare di mandar tutto a puttana. O meglio, quasi da riuscirci a mandare tutto a puttana. Perché sua madre, Diana non l’aveva mai potuta vedere, fin da bambina. Gli ci volle tutta la diplomazia di cui era capace per evitare che le due si scannassero, perché anche Diana non si faceva mettere facilmente i piedi sulla testa, e rispondeva per le rime.
Negli ultimi quindici anni Caterina era cambiata parecchio. Almeno da come Giovanni la ricordava, da bambino in Sardegna. Allora con sua madre c’era stata una sintonia e una complicità totale. Data, forse, dal fatto di condividere una vita di frontiera. Ma da quando avevano lasciato l’isola, e dopo la nascita di sua sorella Anna, Caterina era cambiata. Cercava di giustificarla col fatto che doveva essersi sentita esclusa dalla vita completamente condivisa alla quale si era abituata in Sardegna.
Giovanni stava sempre di più con Enrico, prima alla cava, poi in officina, poi al terminal, in azienda, nel mondo. Caterina stava sempre di più a casa. Isolata forse più da sé stessa che dagli altri. E inacidiva. Anche Anna, appena adolescente, ne aveva preso le distanze e spesso ci litigava violentemente. Giovanni però aveva imparato, copiando da suo padre, la tecnica per avere meno problemi possibile. Le diceva sempre di sì e poi faceva quello che voleva, anche e soprattutto l’esatto contrario. Se ne sentiva un po’ in colpa ma, forse egoisticamente, era l’unico modo per poter fare la sua vita.
E così all’inizio dell’inverno, con in mano un “solitario” montato in oro bianco, fece l’ingresso ufficiale come fidanzato in casa di Diana. Non ebbe bisogno di andare a conoscere i suoceri, si conoscevano fin da quando era bambino. Ufficializzò solo il suo ruolo, e così ebbero anche più tempo a disposizione.
Marco, il fratello di Diana e suo ex amico d’infanzia, da tempo non stava più con Roberta. Anzi, per fortuna, non stava più nemmeno a Firenze perché era andato a fare il corso per ufficiale pilota dell’aeronautica militare. Così Giovanni e Diana potevano finalmente uscire da soli e avevano molti più momenti d’intimità. Almeno quando lui non andava in giro per l’Italia.
Diana stava finendo l’Istituto Tecnico Femminile, quello che era stata la sua vecchia “riserva di fica”. Quando venne la primavera, un paio di volte che si trovava a Firenze e aveva la mattinata libera, andò a prenderla e fecero “forca” insieme: la portò alla vecchia botteghina su per Monte Morello, e finirono a far l’amore su un prato.
Non che gli mancassero posti più comodi, ma così era più bello. Il loro pied a terre abituale era l’ufficio di Giovanni, dove aveva un bel salotto di rappresentanza con lo stereo, il frigo-bar e un divano letto matrimoniale, comprato apposta. Ma il profumo dell’erba primaverile è un’altra cosa, e poi a quell’ora del mattino in ufficio lavoravano!
Il lavoro, infatti, stava cominciando a dargli grandi soddisfazioni. Per gestire il settore dei trasporti eccezionali, Enrico aveva fondato una nuova società, diversa da quella che ancora si occupava del trasporto delle automobili.
Giovanni ne divenne socio insieme allo zio Antonio e ad altre persone, e ne diventò praticamente il direttore tecnico. Adesso si occupava lui di tutta la parte organizzativa, come aveva imparato qualche anno prima da suo zio.
Ma la cosa che lo aiutò di più fu sicuramente l’esperienza che si era fatta grazie al capitano Raimondo, o meglio alla sua cronica assenza che lo aveva costretto a imparare ad essere autosufficiente. Poi c’era sempre il positivo “incazzarsi bisogna” che diventava ogni giorno di più il suo credo incrollabile. Non si fermava di fronte a nulla. Riuscì a organizzare e portare a termine trasporti di una difficoltà tale che altri avevano rifiutato. In pochissimo tempo si era fatta una reputazione notevole in aziende del calibro della Snam Progetti e del Nuovo Pignone, del gruppo Eni. Tutto questo era molto bello, addirittura esaltante dato che aveva solo ventitré anni, ma anche estremamente impegnativo.
Quando, nei primi anni Settanta, l’Eni aveva cominciato a comprare il metano all’estero e di conseguenza a costruire i condotti per portarlo fino in Italia, erano venuti fuori dei problemi che fino a quel momento non si erano mai presentati. Il metano arriva da noi, ancora oggi, da tre punti d’origine precisi: la Siberia russa, il Mare del Nord e il Sahara algerino. In Italia le prime “stazioni di pompaggio” sono in val Canale – quella del Tarvisio – in Friuli; in val d’Ossola – quella del Sempione – in Piemonte; e a Gela in Sicilia.
Che siano a Nord o a Sud, sono comunque in località estremamente isolate e difficili da raggiungere. Non solo... una volta arrivati alla meta comincia la parte più difficile. Prima di tutto bisogna entrare in cantiere, spesso costruendo apposta l’ultimo tratto di strada. Poi finisce il “trasporto” e comincia la “movimentazione”. Giovanni e la sua squadra di otto uomini, cinque autisti e tre operai, facevano quel tipo di lavoro. Erano gli unici a farlo, e in breve tempo avevano acquisito un livello di stima e di fiducia reciproche inattaccabile.
Ogni stazione di pompaggio è costituita da due o tre turbine, che sono il motore e da altrettanti compressori, le pompe che spingono il gas nel condotto fino alla stazione successiva, che di solito si trova a circa duecento chilometri di distanza.
A ogni gruppo turbina-compressore è destinato un suo basamento in cemento e acciaio. Una volta giunti a destinazione, i macchinari dovevano quindi essere scaricati dai rimorchi speciali, sui quali avevano viaggiato, e posizionati in perfetto allineamento assiale per poter lavorare.
Il sistema che Giovanni e i suoi ragazzi usavano era, in teoria, di una semplicità addirittura preistorica. Praticamente quello usato per costruire le piramidi. Si servivano di rulli e di rotaie, di una quantità enorme di legname calibrato e – unica concessione alla modernità – di pistoni idraulici per sollevare e abbassare i macchinari. Ma ci voleva anche una precisione millimetrica e molta attenzione, perché il tutto poteva essere anche estremamente pericoloso.
Tenere più di cento tonnellate di turbina, sospese su castelline di legname alte un metro.
Starci regolarmente sotto, quando il macchinario è sollevato dai pistoni idraulici.
Abbassare di qualche centimetro la castellina, e calarlo una parte alla volta.
Portarlo fino ai trenta centimetri dei rulli coi quali sarebbe stato traslato, sulle rotaie, fin sopra al suo basamento.
Erano operazioni ormai diventate un’abitudine. Ma semplici solo a parole, perché non si poteva farle meccanicamente o con disinvoltura.
Giovanni non stava a guardare ma era sempre sotto, in tuta, per controllare e sistemare di persona gli spessori e gli allineamenti del legname. E via via che l’altezza diminuiva si doveva stare sdraiati a bocconi, sul letto di sabbia livellata, continuando a maneggiare pesanti travi di mogano. Era anche una faticaccia bestiale.
Una volta che stava lì sotto da solo, per riposarsi un attimo si girò sul dorso, rischiando di incastrarsi con le spalle, e allargò braccia e gambe nella posizione dell’Uomo vitruviano di Leonardo. Si trovava esattamente al centro della turbina, in uno spazio verticale di circa sessanta centimetri. E aveva ancora un metro di basamento della macchina oltre ogni braccio teso, e più di sei metri oltre la testa e i piedi. Non lo aveva mai fatto di mettersi a pancia in su, e lì per lì ci rimase male.
Invece di riprendere fiato, lo prese un senso come di soffocamento. Lo spazio aperto era troppo lontano. Non aveva mai sofferto di claustrofobia, ma in quel momento sentì il cuore in gola. Il primo impulso fu di sgusciar fuori. Ma frenò e si costrinse a respirare con calma. Dopo pochissimi secondi si sentì di nuovo a suo agio.
Gli sembrava di essere sottile come un foglio di carta. Anche nel caso impossibile che lo spazio fra l’acciaio e la sabbia si fosse improvvisamente azzerato, lui non avrebbe subito alcun danno. Ne ebbe la certezza.
Come d’altronde non avrebbe subito alcun danno ogni singolo granello di sabbia. Il suo corpo materiale sì, ma non “Lui”. Questa sicurezza improvvisa lo rasserenò facendogli perdere la cognizione del tempo, finché si affacciò Piero, uno dei suoi uomini, a cercarlo...
«Cazzo fai lì sotto? Stai bene?»
«Sì, sì, tranquillo. Mi riposavo un attimo... » e strisciò fuori senza dire niente di quello che aveva provato, e sentendosi un cretino.
Aveva avuto una percezione quasi metafisica che di solito non è dato provare, e che comunque richiederebbe forse anni di meditazione trascendentale, ma non l’aveva capita. Si sentiva solo molto scosso e si diede nuovamente del cretino, mentre cercava di allentare la tensione dandosi ancor più da fare nell’aria gelida del Nord Europa.
In quel momento, all’improvviso, gli tornò alla mente la prima volta che aveva tenuta tra le braccia la piccola Stella e capì che, prima e dopo la vita, c’è dell’altro. Non era un pensiero religioso, ma ci credette fermamente.
Però, ancora una volta, lo riprese la solita frenesia, quasi schizofrenica, che gli impediva di fermarsi per più di un attimo. Anche se l’attimo in questione è talmente importante – come la nascita di un figlio – da giustificare e gratificare un’intera esistenza.
Ma adesso c’era altro da fare.
Stava vivendo un periodo molto intenso. Ripensò un attimo agli eventi di quegli ultimi anni.

*

1975, primavera. Quando sua cugina Franca, laureata in biologia e che lavorava in un laboratorio d’analisi, gli aveva dato il risultato del test di gravidanza di Diana... la prima cosa che gli aveva chiesto non era stata cosa pensava di fare adesso, ma come pensava di fare con sua madre. Franca sapeva benissimo che Giovanni e Diana quel figlio lo volevano. Però, anche lei, conosceva bene sua zia e vedeva nubi tempestose addensarsi sul capo del cugino.
In effetti volarono parole pesanti come macigni, ma Giovanni ci si era preparato e non raccolse le provocazioni. Anzi, fedele all’incazzarsi bisogna, s’incazzò ancora di più, e con maggiore determinazione. In tre mesi misero su casa e si sposarono, con tutti i crismi delle buone tradizioni. Cerimonia in chiesa con le mamme che piangono un po’, pranzo di nozze con tanti invitati: tutto in regola, solo con un anno di anticipo su quanto avevano già programmato.
Anche la cameretta di Stella era già pronta. Con al centro una culla in vimini con le trine e il velo, che sembrava uscita da un film di Walt Disney.
Ma poi la vita di tutti i giorni continuò: un giorno uguale all’altro. Era sempre fuori. A volte passava da casa la notte, per fare una doccia e cambiare la valigia.
Vedeva crescere Stella, ma non si accorgeva che anche le distanze con Diana crescevano. Non si rendeva conto che, alla stessa velocità con cui avevano fatto tutto, adesso, esclusivamente per colpa sua, tutto cominciava a vacillare nelle fondamenta. Continuò per la sua strada convinto che andasse tutto bene, e senza far mancare niente, se non la sua presenza. Purtroppo non ci fu nessuno a dargli uno scossone, dicendogli:
«Stronzo, che fai?»

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