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lunedì 16 luglio 2012


Q     L’altro mare

1978, primavera. Per un certo periodo non se la sentì proprio di tornare dalle parti di Christine. Aveva ancora paura della propria debolezza nei confronti delle donne. Sapeva che, nonostante tutte le buone intenzioni, prima o poi avrebbe ripreso la deviazione verso quel paesino per rivederla. Doveva necessariamente stare lontano da quei luoghi che ormai gli erano troppo familiari.
L’unico modo per farlo era drastico e doloroso, ma lo fece. Abbandonò la sua squadra. O meglio fece un cambio.
In azienda c’era un’altra persona, un socio-amico-collega-tecnico che aveva fatto partecipe delle proprie esperienze e che si occupava dell’altra parte del mondo.
Lasciò a lui la squadra, le Alpi e l’Europa e si diresse verso la Sicilia e l’Africa. Ebbe fortuna perché si ritrovò subito con un impegno molto complesso da portare a termine, e questo lo aiutò a non pensare ad altro.
Hassi Messaoud era pur sempre un’altra stazione di pompaggio, ma stavolta situata proprio in culo al mondo. Più di mille chilometri a Sud di Algeri, in pieno deserto del Sahara.
Dovette cambiare completamente le proprie abitudini di vita. Inizialmente ebbe anche molto più tempo da dedicare alla sua famiglia. E questa fu una cosa estremamente positiva per il suo rapporto con Diana. Per un lungo periodo tornò, finalmente, tutte le sere a dormire nel suo letto. Anche se sotto sotto gli sembrava di fare una vita strana adesso, era invece rientrato nella normalità. La cosa gli fece bene, fece bene a Diana e fece bene anche a Stella, che ora aveva due anni.
Per un po’ di tempo non si limitò a vedere quanto era cresciuta, ogni tanto. Stella era una bambina piena di vita, allegra, e fare il babbo quasi a tempo pieno gli piacque più di quanto si sarebbe aspettato.
Nei suoi confronti aveva delle responsabilità enormi, e capì che negli ultimi anni aveva fatto un errore fondamentale. Aveva invertito le priorità, mettendo davanti il lavoro. La cosa gli aveva fatto sicuramente guadagnare prestigio e denaro. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio, e tutto questo lo aveva pagato a caro prezzo.
Tra l’altro non erano nemmeno bei momenti... quelli, in senso generale. Se ripensava agli inizi del “suo” ‘68, la contestazione studentesca faceva quasi sorridere. Ma aveva fatto bene a staccarsene perché in meno di sei anni si era arrivati, prima alle bottiglie molotov e poi a sparare. C’erano stati i famigerati “anni di piombo” e dopo altri quattro, adesso, le “brigate rosse” cercavano di dettare legge allo Stato. Avevano addirittura fatto una strage della sua scorta e rapito il presidente della Democrazia Cristiana, per poi assassinarlo.
Strategia della tensione: l’Italia era veramente sull’orlo del baratro. Sicuramente più di quella mattina di dicembre a Roma, quando aveva aspettato inutilmente la Guardia Forestale. Giovanni non si era mai occupato attivamente di politica. Continuò a non farlo, ma dentro di sé cominciò quasi a rimpiangere di avere aspettato invano, quella mattina sulla via Salaria.
Intanto preparava la spedizione “Hassi Messaoud” dal suo ufficio di Firenze. Raramente, e comunque dalla mattina alla sera, da quello di Roma quando doveva far qualcosa a un ministero o a un’ambasciata. A volte si concedeva addirittura il lusso di andarci in treno, col Palatino, un rapido che ci metteva meno della macchina. Si stava decisamente imborghesendo.
Quell’estate riuscì anche ad andare in vacanza con Diana e Stella, per quasi un mese. Le portò a Punta Ala, in Maremma e, salvo fare un po’ il pendolare giornaliero, stette quasi sempre con loro.
Alla fine del mese, prima di tornare a Firenze, passarono qualche giorno da sua cugina, al Forte dei Marmi.
Non seppero mai in quale dei due posti, ma Stella si beccò qualcosa. Dopo pochi giorni che erano a casa le venne una febbre altissima, di quelle col rischio di meningite. All’Ospedalino Meyer, quello pediatrico, diagnosticarono una rarissima forma d’infezione interna. Si chiamava sindrome di “qualcuno”, dal nome di chi l’aveva individuata. Ed era quasi sempre letale.
Furono giorni allucinanti. Passati fra una cameretta in isolamento, camici, guanti, mascherine e tristi testa a testa in una squallida trattoria lì vicino, dove cercavano di mangiare qualcosa, senza averne voglia. Dopo qualche giorno furono sicuri di perderla.
Avevano poco più di mezzo secolo in due. Ma si sentivano vecchissimi, addirittura già morti, dentro. Giovanni non sa se Diana pregasse. Non sa nemmeno se lo ha fatto lui. Forse sì, almeno lo spera. Per avere qualcosa in cui credere. Perché tutt’a un tratto, Stella reagì agli antibiotici non mirati di cui la imbottivano.
Evidentemente aveva troppa voglia di vivere per poter morire, e anche loro incominciarono a rinascere. A vedere la luce oltre le tenebre. A riscoprire l’amore, dentro la gioia che si distilla dalla disperazione.
Inevitabilmente... Giovanni vide in tutto questo un segno. Forse banalmente, ma si sentì in colpa. Aveva sempre creduto che niente accada ...mai, per caso. E non si dava pace pensando di essere stato lui a provocare quella specie di collera divina che per poco non si era presa sua figlia.
‘Però in fondo,’ cercava inutilmente di giustificarsi... ‘non ho fatto niente di male.’
Aveva solo voluto bene a più di una donna contemporaneamente. Ma non era stato vigliacco con nessuna. E poi l’amore vero non può mai essere una colpa. Si ricordava bene l’ultima promessa che aveva fatta a Christine:
«Amerò sempre il tuo ricordo.»
...strano, ma quelle poche parole venute spontanee, si erano rivelate estremamente esatte. Adesso era sicuro che non avrebbe mai più rivisto Christine, ma altrettanto sicuro che l’avrebbe ricordata per tutta la vita.
Intanto, Stella cominciava a stare bene e Diana anche, di conseguenza. Anche lui tirò il fiato e cercò d’impegnarsi nuovamente nel lavoro. D’altronde, stavolta non avrebbe potuto fare diversamente.
Venne, di nuovo e forse finalmente, il momento di partire. Stavolta non in macchina, da solo. Stavolta era tutto diverso. Per prima cosa erano solo in tre e non in nove come di solito. Il trasporto eccezionale, salvo il tragitto Firenze-Livorno, non era di sua competenza. Viaggiavano in aereo. E poi...
...poi, rimase senza fiato, quando – tutt’a un tratto – si ritrovò di fronte il mare di sabbia.
Aveva, praticamente, spedito tutto ad Algeri via mare.
Aveva spedito sé stesso e i due operai ad Algeri, con un volo di linea.
E una mattina, ad Algeri, raccolse tutti i pezzi del puzzle e affrontò il deserto.
Citare Lawrence d’Arabia potrà sembrare pleonastico e retorico, ma quel film gli era rimasto nel cervello, nel cuore e nella profondità delle viscere. Al punto da portarlo a leggere anche l’opera del colonnello Thomas Edward Lawrence: I sette pilastri della saggezza. Libro di memorie, visionario oltre i limiti della poesia, come l’autore. Che per Giovanni aveva un suo fascino, quasi malato, di ultimo eroe romantico. In fondo, anche lui era un inguaribile romantico, nel senso letterario del termine, ma con una marcata predilezione per il decadentismo dannunziano.
E anche lui aveva una vera e propria carovana.
Le due turbine e i due compressori caricati su quattro enormi camion Berliet da deserto. Tutti i suoi materiali per la movimentazione, accuratamente stipati in due container, trasportati da altri due camion. Un numero imprecisato di Land Rover sulle quali, oltre a lui e ai suoi uomini, c’erano funzionari di enti statali, del governo e della polizia o dell’esercito. Non lo aveva ben capito. Insomma, un vero e proprio “affare di stato”.
Come abbiamo visto, Giovanni non aveva mai posseduto un eskimo e non sopportava gli indumenti che scimmiottano le divise per dichiarare un’appartenenza. Ma quella volta dovette procurarsi una kefiah, il fazzolettone che in Europa identificava i palestinesi e soprattutto il loro discusso capo, Arafat. Scoprì che nel deserto è un accessorio assolutamente indispensabile, al di là delle frivole mode e degli arbitrari significati.
Lasciarono la città, molto francese, e poi i suoi sobborghi, molto arabi. La strada era ancora asfaltata ma i paesini, tutti di un unico colore, diventano sempre più radi, più piccoli e più polverosi. Piano piano la strada si avviava a diventare una pista.
Sulle Land Rover, notoriamente rigide come panchetti, si ballava e si rimbalzava da tutte le parti. Poi uscirono dal mondo abitato. Non c’erano più tracce d’insediamenti umani. Non c’era più strada. Cominciò la lunghissima pista bianca che portava al Sud, verso i giacimenti di petrolio. Battuta in continuazione da grossi camion, che sfrecciando a velocità folle la rendevano ondulata come le coperture per i tetti in Eternit. Quello che non si usa più, perché contiene l’amianto.
Giovanni, come sempre al volante di uno dei fuoristrada con Pietro e Vittorio, i suoi operai, ascoltava la guida algerina. Fu lei che, in francese, gli spiegò che la pista ridotta in quel modo si chiama tole ondulèe, per l’appunto “lamiera ondulata”.
Cercava di andare piano, ma la vibrazione diventava sempre più fastidiosa. Aveva raggiunto una frequenza che spezzava la voce, e rendeva anche il parlare spezzettato. Si convinse che anche la macchina, pur robusta, presto avrebbe cominciato a smontarsi e a perdere pezzi.
«Vit! Vit!» lo incitava in francese l’algerino, ma Giovanni pensava che andare più veloci sarebbe stato anche peggio. Quando l’altro capì che per lui era la prima volta, si degnò di spiegare: sulla tole ondulèe bisogna far planare le ruote, come la chiglia di una barca sulle onde.
Elementare, convenne Giovanni, pensando che era stato un idiota a non capirlo da solo. Cominciò ad accelerare e le vibrazioni per un po’ aumentarono. Ma arrivati a circa sessanta all’ora, miracolosamente cominciarono a ridursi. Dagli ottanta in su sparirono del tutto. Ora sembrava quasi di viaggiare sull’asfalto liscio.
Guidare a quasi cento chilometri all’ora su quella pista, non era però che lo lasciasse troppo tranquillo. Quella abbacinante striscia bianca era priva di qualsiasi riferimento. Ritrovarsi, senza averla vista, su una buca profonda sarebbe stato un disastro. Da ammazzarsi tutti. E di buche profonde come crateri ce n’erano di continuo.
Bisognava stare attentissimi e guardare con quattro occhi. Per fortuna il beduino sapeva il fatto suo e se ne stava spesso in piedi, attaccato al parabrezza, per essere più alto, avere più visuale e avvertirlo in tempo.
Quella piccola Land Rover scoperta sembrava un cavaliere dell’Apocalisse, quello dell’ira, col cavallo rosso dalle narici fumanti. Il rombo del motore diesel. La vibrazione della pista, che sembrava sparita ma era invece diventata subsonica. Il vento e la polvere e il sole a picco. Fasciarsi la testa con la kefiah, meglio se inumidita, era indispensabile per poter respirare.
Non fu un viaggio nel quale si potesse fare conversazione o ascoltare musica. Ma fortunatamente si fermavano spesso per ricompattare la carovana. I grossi camion Berliet, pur avendo ruotoni alti quasi due metri che li isolavano dalla tole ondulèe, non potevano certo correre con più di cento tonnellate di turbina sopra.
Dopo una giornata allucinante, in tutti i sensi, avevano coperto nemmeno un quinto del percorso. Si fermarono per la notte in un posto che era stato un fortino della Legione Straniera. Mangiarono del cous cous di montone, leggero e dietetico! Senza vino, ovviamente.
Nonostante il caldo del giorno, quella notte patì il freddo. E la sabbia, fine come borotalco, era dappertutto: nel cibo, tra le lenzuola, negli occhi e in bocca. Nonostante la stanchezza dormì malissimo, e prima dell’alba decise di alzarsi, perché non ce la faceva più a stare nel letto.
Trovò un po’ di caffè, polveroso anche quello perché fatto alla turca. Poi, ben chiuso nella giacca sahariana, uscì fuori nella fredda notte che stava finendo.
Il fortino, diventato poi albergo, era stato costruito alla base di una specie di anfiteatro di collinette di sabbia che lo riparavano dal vento. Dalla pista lo separava un grande piazzale dove erano fermi come pachidermi addormentati tutti i camion e gli altri mezzi.
Il cielo a oriente stava cominciando a schiarire decisamente e Giovanni si avviò su per la duna dietro l’albergo. La salita non era più di un centinaio di metri, ma fu faticosa perché estremamente ripida e perché la sabbia non aveva una gran consistenza e gli sembrava di essere nella neve fresca. Ogni passo che faceva scivolava indietro di mezzo. Arrivò finalmente in cima, col fiatone, nello stesso momento in cui il disco del sole cominciava a far capolino sulla linea dell’orizzonte. La sua luce radente sembrava un liquido che si espande avanzando. Gli ricordò l’effetto di un’onda più lunga, con l’acqua che sale oltre il bagnasciuga e invade lentamente la spiaggia.
Più la luce saliva, però, più quella che sembrava la superficie calpestata di una spiaggia, e invece erano dune, diveniva luccicante come acqua. In pochi secondi ebbe davanti un mare sconfinato. Non piatto, ma pieno di ondulazioni che la luce sembrava far muovere, proprio come le crespe delle onde.
Era un altro mare. Non banalmente azzurro o verde, ma dorato come solo chi lo ha visto all’alba può dire di aver visto. Il più bello che gli fosse mai capitato nella sua vita.
Si sedette per terra a gambe incrociate e rimase lì, immobile, senza fiato e senza parole. Quell’immagine che aveva davanti agli occhi esprimeva un concetto d’infinito che non era alla sua portata. Si sentì non più grande di un granello di sabbia e altrettanto leggero.
Dopo tanto tempo era finalmente in pace con Dio, col mondo, ma soprattutto con sé stesso. Allora prese una decisione. Aveva bisogno di tempo da dedicare a Giovanni. Giovanni diventò la priorità.
Quando tutti furono svegli e pronti alla nuova giornata, prese da una parte Vittorio e Pietro e gli raccontò le sue intenzioni. Li sistemò a bordo dei camion che portavano i loro container, che avevano pure l’aria condizionata. Dopo la giornata precedente, passata a farsi sballottare dalla Land Rover, i due tirarono un sospiro di sollievo.
Diede a tutti appuntamento a destinazione: Hassi Messaoud.
Dopo essersi messo d’accordo con la sua guida tuareg, mise in moto il fuoristrada, che aveva fatto caricare di acqua e gasolio, e se ne andarono da soli, verso il deserto sconfinato, verso l’infinito.
Si sentiva veramente scemo, ma il commiato che gli risuonava negli orecchi era:
‘Chiamatemi... Lawrence!’
Lasciarono la pista dei camion. Bussola e carte alla mano – ma il beduino non ne aveva bisogno – puntarono direttamente verso i giacimenti.
Così cominciò la sua navigazione in quel nuovo mare. Avevano ovviamente una radio e degli appuntamenti da rispettare per comunicare la loro posizione. Quel trasporto era pur sempre un affare di stato. Però si sentiva finalmente libero, dopo troppo tempo e... Christine, Diana, Stella:
troppe donne! Lo sapeva di essere egoista ma, anche se per un breve periodo, aveva bisogno che non ci fosse nessun’altro. Aveva bisogno di essere solo con sé stesso.
Furono soltanto tre giorni – un attimo – ma d’una intensità tale da raggiungere lo spessore di un’intera vita... parallela.
La sabbia, le dune, il sole a picco, il caldo, la sete... l’acqua.
Le carte, la bussola, il sole e le stelle... la guida che aveva sempre ragione.
Dormire per terra, il sacco a pelo, il freddo dellanotte... gli scorpioni.
E la mattina dopo... ricominciare da capo, e pensare che quel ciclo non avrebbe mai avuto fine.
Si sentiva come entrato nell’eternità. Ma questo non gli dava esaltazione. Al contrario, lo faceva sentire umano, limitato, fragile. Ma anche estremamente determinato a superare la prova. A sopravvivere. Arrivarono a destinazione un giorno prima della carovana. Poi fece il lavoro per cui lo pagavano, e grazie al quale era lì. Era pur sempre il solito lavoro. Che si fosse sul limitare della tundra siberiana o in pieno deserto africano non cambiava niente. Solo la temperatura. Ma meno 30 o più 50, sono gradi ugualmente duri da sopportare. Però questa volta avrebbe volentieri pagato lui, per essere stato lì. Ormai era appagato, e al ritorno fece il passeggero e si lasciò trasportare.
Quando sbarcarono dall’aereo, a Fiumicino, era trascorso più di un mese. Quasi quaranta giorni nel deserto. Questo gli ricordava qualcosa. Ma ora doveva tornare subito da Diana e da Stella.
Lui, al contrario del colonnello Lawrence, che era riuscito – solo come un cane – ad ammazzarsi in un banale incidente stradale con la moto nel Dorset, aveva una donna e soprattutto una figlia da cui tornare. Loro lo stavano aspettando e, forse, adesso le meritava.
Quell’anno era stato decisamente provante. Ma adesso, per la prima volta, aveva compiuto un viaggio vero. Dentro sé stesso. Sentì finalmente di essere giunto a destinazione... ma era solo un’illusione.
Un nuovo punto di partenza lo stava aspettando.

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