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lunedì 16 luglio 2012


R     Il colore della morte

1979, primavera. Un cavaliere totalmente avvolto in un mantello nero. Di un nero così intenso che assorbiva la luce, al punto da farlo sembrare completamente piatto, a due sole dimensioni. In sella a uno strano cavallo, di un improbabile e rivoltante colore verdastro. Procedeva al suo fianco, unica immagine visibile nella nebbia che li circondava.
«Chi sei tu!» chiese Giovanni.
L’altro girò la testa verso di lui facendo intravedere, fra le pieghe piatte del nero, un volto assolutamente bianco. Segnato da un’espressione che poteva essere, sia un mesto sorriso di compassione, sia un malvagio sogghigno di soddisfazione.
«Sono la Morte, » rispose...
«il quarto Cavaliere dell’Apocalisse.»
«Sei venuta a prendermi?»
«È già da molto, che ti cammino a fianco.»
«Me n’ero accorto.»
«Sei pronto?»
«Il mio spirito lo è, non il mio corpo. Dammi ancora del tempo.»
«Tutti lo vorrebbero, ma non concedo tregua.»
«Tu giochi a scacchi, non è vero?»
«Come lo sai?»
«Lo so... l’ho visto nei quadri, e lo dicono le leggende.»
«Sì, anche questo è vero, com’è vero che non ho mai perso un gioco.»
«Forse anche la Morte può commettere un errore.»
«Per quale ragione vuoi sfidarmi?»
«Te lo dirò se accetti.»
«Avanti allora... »
«Perché voglio sapere fino a che punto saprò resisterti e se dando scacco alla morte avrò salva la vita... orsù gioca! Ti tocca il nero.»
«Il nero si addice alla Morte, non credi?»
...di solito, tutti pensano immediatamente al nero.
Solo al nero.
Giovanni non ebbe il tempo di pensare.
Stava traversando per tornare alla stazione di servizio a riprendere la macchina. Aveva lasciato Diana a fare benzina mentre andava a comprare le sigarette dal tabaccaio di fronte. Girò la testa alla sua destra, prima di arrivare all’altra metà della strada.
La morte era lì a mezzo metro, azzurra come un autobus di linea. Si fermò, ma non riuscì a fare mezzo passo indietro. Dopo una frazione di secondo non c’era più niente. Un buco nero del quale non gli sembrava aver conservato alcun ricordo. Un po’ come il momento della nascita. Del prima e del dopo sì, ma di quell’attimo niente.
Dopo – non ricorda quanto tempo fosse passato – si risvegliò disteso per terra in mezzo all’incrocio, che prima era dieci metri alla sua sinistra. Quando riaprì gli occhi avvertì un nodo alla gola e si scoprì paralizzato dal terrore. Un ricordo... era prepotentemente rimasto.
Cercò con apprensione, intorno a sé, il cavaliere avvolto nel mantello nero, in sella al cavallo di un improbabile colore verdastro. Ma, giro giro, vide solo un cerchio di volti sconosciuti e sconvolti. Tutti in apprensione come lui. Poi ne riconobbe uno. Quello di Diana. Talmente contorto da una smorfia devastante, che si preoccupò per lei.
Cercò di tirarsi su, ma qualcuno lo trattenne. Aveva la gamba destra ripiegata sotto la sinistra. Cercò di raddrizzarla e un dolore lancinante gli tagliò il fiato. Allora respirò profondamente e prendendole una mano disse:
«Tranquilla, sto bene. Mi aiuti a stendere la gamba. Mi fa male.»
Ma le lacrime continuavano a rigare le guance di Diana, e sentì qualcuno dire:
«È vivo!»
‘Cazzo!’ pensò...
‘E che dovevo essere morto?’
In effetti sì, doveva essere morto. Che fosse ancora vivo era solo un caso. Solo il fatto che l’autobus andasse troppo forte l’aveva salvato. A causa della velocità elevata era uscito un po’ dalla sua corsia preferenziale e lo aveva investito. Ma proprio grazie a questa lo aveva respinto come una pallina da tennis, anziché tirarlo sotto le ruote. E nessuna delle macchine dell’altra corsia lo aveva investito. Un caso, appunto. Senza il quale sarebbe sicuramente morto.
Poi sentì la sirena e finalmente arrivò l’ambulanza a soccorrerlo. Come aveva capito dalla faccia di Diana e da tutte le altre che aveva intorno, non doveva essere troppo presentabile.
L’unico dolore bestiale lo aveva alla gamba destra, dove il paraurti dell’autobus lo aveva colpito nella parte esterna, all’altezza del ginocchio. Ma contro il muso del pullman ci aveva sbattuto anche la testa: una ferita al sopracciglio destro, una al mento e una al cuoio capelluto.
Nessuna grave, perché aveva proverbialmente la testa dura come i sardi, ma tra tutte lo avevano fatto diventare una maschera di sangue. Vedendo questa situazione, quelli dell’ambulanza pensarono si fosse rotto la testa, e giustamente decisero di portarlo a un ospedale normale in centro, invece che all’ortopedico sul viale dei Colli.
Traversarono a razzo mezza Firenze. Lui era legato alla lettiga, ma vedendo che Diana non ce la faceva a reggersi da nessuna parte, cercò di rassicurarli:
«Ragazzi, sto bene, » e a battuta...
«visto che... con me l’autobus non ce l’ha fatta, cerchiamo di non ammazzarci tutti adesso!»
Ce la fecero ad arrivare al pronto soccorso.
Lo portarono dentro d’urgenza, mentre Diana correva in cerca di un bagno per vomitare.
Gli dispiacque quando vide che tagliavano via i pantaloni e la felpa nuovi a cui teneva molto, ma chi se ne frega... tanto sicuramente si erano anche strappati. Gli ripulirono le ferite, fecero un po’ di medicazioni e di radiografie, poi lo sistemarono in un letto e lo lasciarono lì.
Alla gamba non gli fecero niente, nemmeno una fasciatura. E il ginocchio gonfiava e faceva male, sempre di più: notte in bianco. Il mattino dopo un medico gli disse che ormai il ginocchio era andato: riunione di famiglia.
«Chi conosciamo e dove?»
Un amico di Enrico, al solito. La sua donna era caposala all’Ortopedico. Fu contattata immediatamente, e mandò un’ambulanza a prenderlo. Fecero la pratica di trasferimento e finalmente lo portarono al famoso “Palagi”, dove passò i quattro mesi successivi.
Per prima cosa gli siringarono mezzo litro di ematoma che aveva fatto gonfiare il ginocchio e Giovanni si sentì riavere. Poi radiografie a sfare e di nuovo in un letto.
Il mattino dopo lo visitò il primario del reparto, un professore famoso, e non furono rose.
«Giovanotto, lei a questa gamba ha delle lesioni gravissime, » sentenziò il luminare...
«vedremo cosa è possibile fare, ma non le prometto niente.»
«Cosa vuol dire Professore? Me lo dica chiaramente!»
«Lei ha tutti i legamenti del ginocchio strappati e sette fratture.»
«E basta?» cercò di scherzare Giovanni per cacciare indietro lo sconforto.
«Potrò ricamminare?»
«Probabilmente sì, ma portando un apparecchio esterno che sorregga l’articolazione.»
Giovanni rivide suo zio Giulio, il babbo di Franca, che aveva da sempre un apparecchio simile a una gamba offesa dalla polio. Era una specie di protesi esterna, articolata all’altezza del ginocchio e con posizioni fisse, a scatto, a 90° per sedersi e a 180° per camminare.
Non aveva ancora ventinove anni e non era facile accettare di rimanere con una gamba diritta.
Chiese tutte le spiegazioni possibili e se c’era qualcosa da tentare. Il professore rimase un attimo indeciso, poi si consultò brevemente con l’assistente e fece la proposta.
«Il mio collega ha appena partecipato a un corso di aggiornamento per imparare, da un famoso ortopedico francese di Lione, una tecnica sperimentata sui calciatori... » e poi aggiunse...
«ricorda, qualche anno fa, Franco Liguori del Bologna?»
«Mi sembra... » Giovanni cercò di focalizzare...
«si scontrò con quella “roccia” di Benetti, e oltre al ginocchio si troncò anche la carriera.»
«Sì, ma dopo gli interventi del professor Trillat provò anche a rigiocare al calcio... più o meno, e comunque cammina!»
«Quindi anch’io potrei ricamminare?» domandò speranzoso Giovanni.
«Se tutto va bene e con una lunga riabilitazione, sì.»
Alla fine consentì di essere sottoposto a una serie di interventi chirurgici. In pratica accettò di fare da cavia, ma non aveva troppe alternative. Dopo due giorni fecero la prima operazione. Sette ore, durò. Passate sotto anestesia da pentothal. Con sua madre e Diana che aspettavano ansiose. Come lui aveva aspettato Stella. Quando lo riportarono in camera dormiva ancora. Cominciò a riprendersi dopo un paio d’ore. Nel frattempo erano arrivati anche Enrico e Anna.
Riaprì gli occhi e vide intorno al letto quattro sagome di cartone, immobili, come quelle dei personaggi dei film che mettono nell’atrio dei cinema.
‘Mia moglie... mio padre... mia madre... mia sorella... ‘ focalizzò tra sé, e...
‘che ci fanno qui le loro foto a grandezza naturale?’ si chiese nel suo totale stordimento.
Era “fatto” come una scimmia.
Continuarono a sembrargli piatte sagome di cartone anche quando, stranamente, si misero a parlare. L’intervento – era la prima volta che quell’equipe lo eseguiva – durò molto più del previsto, e lo lasciò completamente drogato dall’anestetico. Il pentothal, in dosi così massicce, diventa un potente allucinogeno.
Piano piano riprese piena conoscenza, ma stava meglio prima. Più si risvegliava del tutto, più il dolore alla gamba diventava insopportabile. Quella notte, per farlo dormire, gli fecero anche un’iniezione di morfina. Dopo una settimana avevano programmato il secondo intervento. Doveva per forza essere fatto entro certi termini, ma l’anestesista escluse di potergli fare di nuovo la “totale”, dopo così poco tempo.
Per fortuna però, questa volta era un’operazione molto più breve della prima. Così decisero per l’anestesia locale, fatta con la puntura lombare.
La mattina del giorno previsto, il suo era programmato come secondo intervento. All’ora stabilita lo portarono giù, e l’anestesista gli fece quella maledetta puntura. Non è per niente simpatico farsi infilare un ago nella spina dorsale! Poi rimase da solo, sulla lettiga a sonnecchiare, tanto le gambe non le sentiva più. Quando la sala operatoria si liberò, un infermiere venne a prenderlo. Giovanni si svegliò completamente, incuriosito dal poter vedere quello che sarebbe successo. I medici dell’equipe ormai li conosceva tutti.
«Buongiorno dottor Caio, ‘giorno dottor Tizio.»
«Buongiorno Giovanni, tranquillo?»
«Tranquillo e curioso di vedere quello che mi fate... tanto questa è veloce, vero?»
«Sì. Stavolta dovrebbe bastare una mezz’oretta, o al massimo quaranta minuti.» gli rispose l’assistente del professore, che lo aveva già operato.
«Va bene, ma mi racconti tutto quello che fa.»
«Ok Giovanni, ti tengo informato!»
«Grazie dottore. Allora, si comincia?»
«Bene... per prima cosa bisogna “asciugare” la gamba.»
Gli tolsero il gesso operatorio della settimana precedente e gli misero la gamba su un piano inclinato. Poi l’avvolsero in una specie di camera d’aria che gonfiarono, per comprimerla e far defluire il sangue dall’arteria femorale. Infine gli misero un laccio emostatico all’attaccatura dell’inguine e cominciarono a sistemare il telo operatorio verde.
Un assistente lo fermava via via con delle pinze chirurgiche a scatto.
Con una lo pizzicò sulla coscia.
«Ohi!» sbottò Giovanni.
«Come ohi? Tu non puoi sentire niente.»
«Eppure ho sentito male!»
Fecero delle prove con un ago. Giovanni sentì tutte le punturine. Allora richiamarono l’anestesista. Un rapido consulto portò a una sconcertante conclusione, che non aveva alternative: l’intervento andava fatto comunque, per non sputtanare tutto quello che era stato ottenuto col primo. Ma non si poteva fare un’altra anestesia. Dalla lombare era passato troppo tempo e l’effetto stava finendo. L’anestesista gli fece solo un’altra “puntura del coraggio”, che è un blando sedativo e cominciarono. Erano cambiate le carte in tavola e il gioco a cui si era preparato diventò...
un salto nel buio.
Sentì il bisturi che tagliava i tessuti.
Sentì lo scalpello che sollevava la scheggia di tibia, sotto la quale fissare i legamenti laterali strappati.
Sentì i colpi del martello, che piantava i chiodi a tre punte per rifermarla.
Sentì che stava per morire perché non riusciva più a respirare. Il dolore era diventato un’entità non descrivibile con i normali parametri. E anche i suoi parametri vitali stavano sballando.
Da tutto questo era isolato solo da un sipario di tela verde che aveva all’altezza del petto. Accanto alla sua faccia, distorta, la faccia dell’anestesista, preoccupatissima.
«Resisti, che è finita... » e, d’istinto, gli mise tra i denti un rotolo di garza bagnata da mordere, mentre gli asciugava il sudore. Il fisico di Giovanni era già troppo provato e indebolito...
«Sbrigatevi, cazzo, che lo perdo!» rivolto ai colleghi, anch’essi sudatissimi.
Fu una corsa contro il tempo. Per fortuna verso la fine svenne. Mentre il chirurgo lo ricuciva l’anestesista gli fece un’iniezione di coramina che lo riportò in questo mondo.
«Dài, è finita, se Dio vuole.» ...la voce del dottore arrivava da lontano, e Giovanni annuì.
«...è andato tutto bene. Adesso puoi anche lasciarti andare... » e rivolto ai colleghi...
«ragazzi, non mettetemi più in queste situazioni.»
Poi lo lasciarono “raffreddare” prima di riportarlo in camera. Rimase un giorno intero in uno stato quasi demenziale. Non era in grado di connettere. Quell’incontro ravvicinato con la “linea di confine” era stato molto più scioccante dello scontro con l’autobus.
Il primo pensiero semilogico di Giovanni fu:
‘Ora basta! Mi sono rotto i coglioni di cercare solo di sopravvivere!’
Basta col blu del pullman. Basta col verde operatorio. Il colore che si addice alla morte è il nero!
Quindi a lui spettava il bianco, e di conseguenza il diritto alla prima mossa.
Gli tornò in mente la partita a scacchi nel film di Bergman Il settimo sigillo. Del quale, durante l’incoscienza subito dopo l’incidente, aveva stranamente rivissuto il dialogo con la Morte. D’ora in avanti il gioco lo avrebbe condotto lui. E stavolta l’importante non sarebbe stato partecipare, ma solamente vincere. Come in una partita a scacchi ci volle tanta pazienza, molta attenzione e ancora più determinazione. Dopo qualche settimana, con un bel gesso, lo mandarono per un po’ a casa. Era agosto e passarono qualche giorno nella villa in campagna con Stella, Enrico e Caterina.
Anna, sua sorella, aveva quasi ventun’anni e se n’era andata in Spagna con un’amica. Lei, con una piccola 126 rossa – la versione moderna della sua mitica 500 – arrivò fino a Gibilterra. Giovanni, il viaggiatore di famiglia, con la sua sedia a rotelle fece avanti e indietro casa-giardino, perché era tutto in piano.
Con Diana sembrava andare tutto bene. Dopo due mesi d’astinenza riuscirono anche a giocare un po’ a marito e moglie, nonostante l’ingombrante gesso che non gli consentiva troppe acrobazie.
Presto però dovette tornare al “Palagi”. L’unica cosa buona di quell’ospedale è che si trova subito sotto piazzale Michelangelo, in una posizione abbastanza arieggiata e panoramica. Non propriamente un luogo di villeggiatura, ma nemmeno uno squallido casermone periferico, come di solito sono gli ospedali delle città.
Nonostante i pochi giorni passati in campagna, con sua madre che lo aveva messo all’ingrasso, dal momento dell’incidente Giovanni era dimagrito una decina di chili. Dopo quasi due mesi aveva ancora i segni dell’autobus, soprattutto sul viso. Insomma, non si può dire fosse in una forma smagliante. Ma quando gli tolsero il gesso ci rimase proprio male. La sua gamba destra sembrava quella di un altro. Ancora più rifinito di lui. Da quel momento ebbe inizio la cosiddetta riabilitazione. Camminava con le stampelle, tirandosi dietro quell’arto totalmente inutile e, per la prima volta, si sentì veramente menomato. La partita a scacchi con l’ultimo cavaliere cominciava solo adesso.
Dovette confrontarsi con una serie lunghissima di terapie di ogni genere, e di macchine infernali che sembravano uscite da un museo della tortura. E tutto questo, oltre a essere faticoso, era anche molto doloroso. A volte gli veniva veramente voglia di gettare la spugna. Ma quando la mattina la sua amica caposala gli portava un caffè – montando di servizio – stringeva i denti si accendeva una sigaretta e andava avanti, per un altro giorno, anche se i risultati non erano incoraggianti come avrebbe voluto.
A furia di massaggi, ginnastica e applicazioni di ogni genere – dai fanghi alle scosse elettriche alle infiltrazioni – piano piano la gamba tornò a essere la sua. Quando finalmente gli consentirono di riappoggiare il piede per terra ritrovò l’equilibrio, non solo quello fisico ma soprattutto quello mentale. La strada cominciava a essere quasi in discesa e le sue motivazioni divennero più forti. Stava mangiando un pedone dopo l’altro e presto sarebbe arrivato alle torri, ai cavalli e agli alfieri.
All’inizio dell’autunno lo dimisero definitivamente. Dopo quattro mesi riuscì a rientrare in casa sua, in cima a una rampa di scale. Si ricominciava a vivere.
I primi tempi lo accompagnò Diana, tutte le mattine, a fare la riabilitazione, che comunque doveva continuare anche se non era più ricoverato.
Poi, anche se camminava ancora con le stampelle, riuscì ad andarci da solo. Con la Mini gialla di lei, che in qualche modo riusciva a guidare anche se, date le sue condizioni, non avrebbe potuto. Un po’ come quando guidava il motorino a dodici anni. Questo lo fece sentire meglio, quasi autosufficiente. Guidare la macchina era importante quasi quanto riuscire a camminare.
...Giovanni è fatto così.
Ormai si era mangiata anche la regina, rimaneva solo da bloccare il re. Dare scacco matto, e chiudere la partita.
Si rese conto di esserci riuscito quando, agli inizi di dicembre, andò con le sue gambe a una visita di controllo dal dottore che lo aveva operato. L’aveva richiesta lui, e il medico si preoccupò che qualcosa non andasse bene.
«No, no, dottore. Va tutto benissimo. Anzi… »
e l’altro,
«Meno male, mi avevi fatto preoccupare l’altro giorno con quella telefonata.»
«Ma no, volevo solo che mi desse una controllatina generale... una conferma... »
Il medico fece tutte le prove di controllo.
«Mi sembra tutto in perfetto ordine. Lo sai che la tua cartella clinica e le foto dell’intervento sono state pubblicate su una rivista medica? Sei diventato un caso di riferimento!»
Giovanni era soddisfatto ma titubante.
«Bene, bene, bene... no, volevo chiederle. Anzi no, dirle, che ho deciso... »
«Cosa?»
«...insomma, che a gennaio voglio ricominciare a sciare. Vado a fare una settimana bianca.»
L’altro rimase senza parole. Era abituato a dover mettere alla frusta i pazienti, per farli reagire. A questo qui, invece, bisognava mettergli i freni!
«Tu sei pazzo... » esordì,
e Giovanni pensò che questa l’aveva già sentita.
«No, no, non voglio fare pazzie. Voglio solo riprovare con prudenza... »
«...sì, con prudenza. Ma se ti ritronchi il ginocchio, non tornare da me!»
«Non mi rompo, dottore, tranquillo. Ci vediamo a fine gennaio.»
Si salutarono. Mentre Giovanni se ne andava, senza nemmeno zoppicare troppo, il medico scuoteva la testa ancora incredulo, e un po’ preoccupato, ma soddisfatto.
E così si ricominciava. Cercò un posto dove ci fossero delle piste facili. Nelle zone che aveva nel cuore, ma non troppo vicino a Bolzano. Chissà perché.
Frugando fra i ricordi e le carte geografiche scelse Folgarìa, sotto Trento. Un bel giorno, dopo la Befana, partirono in sette. Oltre a Giovanni, Diana e Stella, c’era uno dei suoi tanti cugini con la moglie e i due figli.
Viaggio, albergo, cena, grappino, buonanotte, buonanotte...
Ma quella notte dormì male. Ruzzolò nel letto, tra mille pensieri e qualche dubbio. Non è che quel maledetto ginocchio fosse guarito del tutto. Nonostante con tutti facesse finta di niente. In realtà se lo sentiva “impaccato” come se tutti i tessuti, le articolazioni e quant’altro, fossero induriti dalla ruggine.
‘Forse sto esagerando’ pensava, e poi...
«No! Devi provare» gli diceva l’altra parte di sé stesso: quella pazza.
‘E se mi succede qualcosa? Che cazzo faccio?’
«Ma che vuoi che ti succeda, coglione... »
‘Beh, sì. Non mi hanno fermato neanche le cannonate.’
«Appunto, figurati un catorcio d’autobus. Ma ora cerca di dormire. Buonanotte Giovanni.»
La mattina finalmente arrivò e si svegliò sudato fradicio, ma carico come una molla. Si mise, per scrupolo, una normale fascia elastica sotto i pantaloni da sci, che comunque avevano anche delle belle imbottiture tricolori.
E poi via andare!
Iniziò dal campo-scuola, con la scusa d’insegnare a Marco e a Carlo, i due biscugini che comunque lo chiamavano zio, e che erano proprio alle prime armi. Dopo due giorni avevano preso sicurezza, quanto lui. Cominciò a portarli su tutte le piste e gli fece smettere lo “spazzaneve”. I due ragazzini impararono a girare a sci uniti con una facilità sorprendente.
Dopo qualche ora dava il cambio a Diana. Lei andava a sciare e lui rimaneva con Stella. Allora comprò un paio di sci giocattolo. Saranno stati lunghi quaranta centimetri, di plastica e senza gli attacchi. Si legavano direttamente ai doposci con dei laccetti. Ci piazzò sopra Stella e cominciò a tirarla in piano usando una racchetta come ski-lift. La piccina ci prese subito gusto, e Giovanni decise che le avrebbe insegnato a sciare per davvero. E a cinque anni Stella sciava da dio.
Quando tornarono a Firenze portò le foto di Folgarìa al suo dottore, per allegarle ai documenti sul “caso clinico”.
Ora sì che la partita a scacchi era veramente finita, e vinta. Gli ci erano voluti quasi nove mesi.
Quanto a una donna per fare un figlio.
Ma come l’araba fenice, le ceneri di Giovanni avevano finalmente partorito il Giovanni nuovo.
Ancora più nuovo di quello tornato dopo i quaranta giorni nel deserto.

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