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lunedì 16 luglio 2012


S     Fine di un’epoca

1980, primavera... si ricomprò la moto. Una Honda 500 bicilindrica. In quegli anni era di moda la Four, ma a Giovanni piaceva andare controcorrente.
In estate lasciarono Stella in campagna con i nonni. Caricò meticolosamente la moto, fino all’inverosimile, con tutto l’occorrente per fare campeggio. A Civitavecchia li aspettava il traghetto della Tirrenia. Diana andava a conoscere la Sardegna.
Come era stato nelle sue intenzioni, fecero veramente più i viaggiatori che i turisti. Partì dal Nord, da Olbia e a zig-zag – tagliando per tutto l’interno – scese verso il Sud. Non ebbe furia di arrivarci, doveva essere una cosa naturale, una successione logica di luoghi. Ma la mèta era Buggerru. E Buggerru fu anche la delusione più cocente.
Furono ospiti dello zio Antonio, quello che tanti anni prima aveva sposato la ragazza sarda. Ormai sua madre, la signora Ottavia, non c’era più. Dopo più di vent’anni, rimanevano poche le persone che aveva conosciuto da bambino. C’erano tanti negozi nuovi sulla via principale, che non era più neanche l’unica. Perfino gioiellerie che vendevano il corallo, ma non più il vecchio Emporio.
Mancavano tante cose. Soprattutto una: ...la “sua” Buggerru. Fece buon viso a cattivo gioco. In fondo era tutto molto bello, e infatti a Diana piacque tantissimo. Si tolse anche un paio delle voglie di quando era bambino.
La prima, visitare la miniera di Malfidano, quella nuova, anche lei ormai abbandonata. Trovarono dei vecchi elmetti da minatore e si avventurarono nei tratti iniziali delle gallerie di superficie, fino ai pozzi degli ascensori ormai definitivamente fermi. Quei buchi neri nei quali la luce delle torce elettriche si perdeva impotente, emanavano un fascino quasi perverso. Evocavano gli inferi, e ad un certo punto gli sembrò anche di sentire puzza di zolfo. Ma era solo la sua immaginazione, che si lasciava condizionare.
La seconda, vedere quella specie di posto di guardia scavato nella roccia in fondo alla spiaggia dove, quando era bambino, non gli avevano permesso mai di arrampicarsi. Le vecchie staffe murate per arrivarci non c’erano più nemmeno tutte, e dovette sudare per arrivare, finalmente, a quella porticina di ferro, ormai scardinata, a cinque metri d’altezza.
Dentro: buio, umido, puzzo.
Il corridoio, sulla sinistra, è lungo quasi cinque metri. Poi si vede che gira a destra, perché in quel punto c’è la prima feritoia da cui entra la luce. Ti affacci, o meglio ci guardi dentro, e dopo mezzo metro di roccia scavata c’è il mare, all’altezza della linea dell’orizzonte. Così dalle altre tre feritoie, che ci sono nella stanza dove il corridoio sbuca. In effetti, da quei quattro punti di osservazione si controlla tutto l’orizzonte visibile.
Giovanni girò lo sguardo intorno.
Nella fioca luce che entrava da quelle piccole aperture, lo spettacolo era disgustante. In un angolo avevano fatto il fuoco. Si chiese chi e come, dato che il fumo non poteva uscire da nessuna parte! E poi, per terra, il ciarpame più disgustoso: dalle cartacce, anche di giornaletti porno, ad avanzi di ogni genere. Doveva essere stato – chissà quando – il rifugio di qualcuno... magari di un bandito. Decise che era meglio guardare fuori. Anzi, meglio uscire proprio... anche perché gli stava prendendo la nausea.
Qualche giorno dopo, finalmente, con la scusa che volevano vedere ancora tanti posti e non avevano troppo tempo, riuscì a ripartire. Fermamente sicuro che sarebbe stata l’ultima volta. Negli anni successivi lo hanno invitato in tanti a ritornarci, prima gli zii e dopo i cugini. No, grazie. Senza complimenti!
Di nuovo a casa, di nuovo al lavoro.
Di nuovo i soliti problemi, di nuovo con Diana.
Eppure adesso viaggiava poco. Stava quasi sempre in ufficio, in giacca e cravatta. Non strisciava più in tuta sotto le turbine, e questo gli mancava. Andava solo ogni tanto all’ufficio di Roma o a quello di Milano. Al massimo due giorni in Svizzera dal suo nuovo socio iraniano, o meglio “persiano” come diceva lui, rimasto fedele allo Scià e che non poteva vedere Komeini.
Non era sempre “latitante” come una volta.
Questa situazione, al contrario di quanto si sarebbe aspettato, non rendeva Diana più tranquilla. Anzi, in certi momenti aveva quasi la sensazione che la sua presenza la infastidisse. Non se ne preoccupò più di tanto... le sarebbe passato. La vita continuava, doveva continuare. E non andava neanche poi così male.
Adesso si occupava quasi esclusivamente del Medio Oriente. L’azienda infatti, aveva aperto uffici locali anche a Istambul, a Beirout, a Ryiadh, a Baghdad e a Theran. Lavoravano molto per una grande ditta francese, che stava costruendo un enorme terminal petrolifero in Iraq, a Bassora sullo Shatt al Arab. Via mare, ci portavano roba da tutto il mondo, perfino dal Giappone. E per questo avevano un ufficio anche a Kuwait City, nel cui porto arrivavano tutti i macchinari che poi trasportavano, nel deserto, fino in Iraq.
No, in effetti, non andava per niente male. In inverno, con Franco, il suo socio-amico, andarono a Milano e si fecero un bel regalo: Dufour 35. Da portare a Punta Ala. Un bel cabinato a vela di undici metri, con tre cabine. Tutto bianco, con la coperta in teak e gli interni in mogano. Le barche sono femmine, si sa, e la volle assolutamente chiamare Chris Ia, ma ufficialmente il nome lo scelse il suo socio, così non ci furono da dare spiegazioni.
Passarono diversi fine settimana dietro al nuovo giocattolo. Prima il trasporto, poi il varo in cantiere, poi tante cose da personalizzare e da mettere a posto. Le prime uscite in mare furono una bella emozione. Ma la barca andava da dio ed era pure facile da portare. Soddisfattissimi cominciarono a progettare, per l’estate successiva, un bel giro a vela della Corsica.
Intanto Diana, con la bambina, era sempre in montagna a sciare. Avevano una casa in affitto sull’Appennino bolognese e ci passava intere settimane. Adesso faceva lei la “latitante”, ma Giovanni aveva altre cose per la testa e non si accorgeva mai di niente.
E purtroppo, anche stavolta, non ci fu nessuno a dargli uno scossone, dicendogli:
«Stronzo, che fai?»

*

1981, primavera. In effetti di cose strane, in quel periodo, ne fece parecchie. La prima, all’inizio dell’anno precedente, passò inosservata. Ma avrebbe avuto delle conseguenze macroscopiche qualche anno dopo. Per farla breve conobbe, in senso sociale e non “biblico”, una ragazza che si chiamava Stella, come sua figlia.
La seconda, invece, non ebbe alcun tipo di conseguenza, ma fu una bella, brevissima, avventura. Ma anche stavolta, non in senso “biblico”...
e qui, forse, ci starebbe bene un purtroppo.
Maria, un’amica di Diana.
Era rumena, con un bellissimo – come lei – figlio di quasi sei anni, ma purtroppo aveva sposato uno stronzo. Fiorentino-violento-facchino al mercato ortofrutticolo. In crisi per fatti loro si stavano separando, ma lui non voleva saperne e stava perdendo la testa. Maria diceva che lui aveva in casa una pistola non dichiarata.
Aveva paura, piangeva con Diana. Voleva portare il figlio dai suoi genitori, per allontanarlo da una situazione spinosa, e non sapeva come fare. Fu proprio Diana a trovare la soluzione. Tanto per Giovanni, guidare... mai stato un problema!
Un mercoledì mattina presto, dopo che Marcello era andato come al solito a lavorare all’alba, Giovanni si ritrovò in macchina con Maria e suo figlio. Stava partendo per Timisoara: uno dei pochi posti, in Europa, che non aveva la minima idea di dove fosse.
Doveva passare la frontiera con la Jugoslavia prima di mezzogiorno. Prima che Marcello, tornando a casa per il pranzo, si accorgesse della scomparsa della moglie e del figlio e potesse, eventualmente, fare una denuncia che li avrebbe potuti bloccare alla frontiera.
Matteo dormiva beatamente sul sedile posteriore. Maria invece era molto preoccupata e agitatissima. Dovette farla parlare in continuazione per vedere di tranquillizzarla. Quando furono oltre Venezia cominciò a calmarsi.
Giovanni si fermò a fare rifornimento. Si sgranchirono le gambe, presero qualcosa all’autogrill, andarono in bagno. Le solite cose. Matteo giocò un poco con un pupazzetto di Goldrake, poi si rimise a dormire.
«Con suo padre non era mai così tranquillo, in macchina.» disse sottovoce Maria, che cominciava a sentirsi meglio. E dopo un po’:
«Ti conosce così poco... ma gli ispiri fiducia.» ...era evidente che parlava soprattutto per sé.
«Visto che ti sei un po’ rilassata, cerca di riposare un’oretta prima che arriviamo al confine, » glissò Giovanni. E per farla sentire coinvolta in qualcosa di più reale delle sue paure...
«per entrare in Jugoslavia avrò bisogno di te.»
...come se potesse avere problemi a passare una frontiera. Anche se, in effetti, dei paesi dell’Est Giovanni conosceva abbastanza bene solo l’Ungheria.
Il primo impatto che ebbe con la Jugoslavia di Tito fu devastante.
Fino a Trieste il mondo era stato a colori. Dopo la frontiera di Fernetti diventò, non in bianco e nero, ma solo grigio. In tutte le sfumature possibili, ma solo di grigio.
Come se non bastasse il tempo che gli avevano fatto perdere i doganieri, furono fermati subito dopo anche dalla polizia. E di nuovo controlli dei documenti e domande a non finire. Più che fare il loro dovere, davano decisamente l’impressione di abusare del loro potere, per il puro gusto di farlo. Finalmente riuscirono a buttarsi sulla micidiale strada che porta a Sud. Sulla quale passa tutto il traffico pesante con la Bulgaria e la Turchia: la porta del Medio Oriente che ormai ben conosceva.
Strada a due corsie con camion che si sorpassavano di continuo in tutte e due le direzioni. Giovanni non riusciva a tenere più di sessanta o settanta chilometri l’ora. Pur mantenendo un livello di attenzione bestiale. Pensò a quanti chilometri dovevano fare e gli prese male.
«E quando arriviamo?» si chiese, ad alta voce.
«Te l’avevo detto, che ci vogliono due giorni. Ma non ti sembrava possibile.»
In effetti Maria aveva ragione, l’aveva fatto troppe volte, lei, quel viaggio. Si mise l’animo in pace e lasciò scorrere le ore e i chilometri. Verso la fine della giornata, nonostante l’allenamento e l’abitudine alla guida, si sentiva decisamente stanco. Ed erano solo a metà strada. Si fermarono per la notte in un paesino fra Zagabria e Belgrado. Camera singola e dormire come un sasso.
Belgrado, città enorme, caotica e ancora più grigia del resto, lo inghiottì il giorno dopo. Giovanni non si era mai perso, nemmeno la prima volta che aveva traversato Vienna per andare a Bratislava. A Belgrado non ce la fece. Meno male che Maria si ricordava un po’ le direzioni da prendere. Ci vollero comunque un paio d’ore per venirne fuori. E poi, via verso il confine con la Romania. Della Jugoslavia, già non ne poteva più. Il panorama riprese a migliorare. Via via si cominciava a vedere, fra il grigio, sempre più verde.
La campagna adesso era inaspettatamente bella. Ma alla frontiera con la Romania, gli fecero sputare sangue.
Le guardie di confine cercarono disperatamente di tutto. Calze di nylon, penne a sfera, jeans, riviste porno. Solo per poterlo “sequestrare” per uso personale. Dopo averli rigirati come calzini si convinsero che non avevano niente di tutto ciò, salvo quello che indossavano. Per poter passare, allora, l’unico modo fu allungare una mazzetta dei dollari che aveva cambiato prima di partire e che, su consiglio di Maria, teneva accuratamente nascosti.
Il “benvenuto” in Romania non fu dei più calorosi ma finalmente ce l’avevano fatta. Maria si sentiva a casa e Matteo non vedeva l’ora di riabbracciare i nonni. Giovanni tirò un respiro di sollievo. Un viaggio molto più difficile di quanto aveva immaginato, ma adesso era estremamente contento. La soddisfazione trasformò in gioia di vivere il cupo alone di “fuga” disperata, che li aveva accompagnati per tutto il viaggio.
Timisoara è una bella città, viva. Non per niente, qualche anno dopo, la rivolta contro Ceaucescu cominciò proprio da qui. E qui i genitori di Maria, che erano delle splendide persone, li stavano aspettando con trepidazione. Per loro Giovanni era quasi un eroe. Si sentì molto a disagio per questo e dovette schermirsi dalle loro eccessive manifestazioni di riconoscenza.
Il padre di Maria faceva l’ingegnere agrario. Lavorava per il governo, come tutti, ma non se la passava male. Aveva una bella casa grande, quasi una villetta singola con tanto di giardino. A Giovanni fu assegnata la camera del figlio minore, che era all’università a Bucarest. Sembrava la camera di un qualsiasi studente universitario occidentale.
Il venerdì trascorse tutto in quella strana città dove, sotto sotto, si respirava già un’aria di ribellione al regime. Gli fecero fare il turista in un posto dove il turismo, ancora, non esisteva. Mangiarono, bevvero – a tavola acqua e grappa –, sistemarono Matteo dai nonni e si prepararono a ripartire.
Il mattino dopo: sabato. Accompagnati dalle lacrime della madre di Maria: e da una mamma te le aspetti. Ma anche da un abbraccio, a Giovanni, da parte di suo padre. Un triplice abbraccio alla russa, non formale ma estremamente coinvolgente. Dal quale Giovanni si rese conto, con sgomento, che pur non conoscendolo affatto quell’uomo, che poteva essere suo padre, gli stava affidando la sua unica figlia. Con una manifestazione di spontanea fiducia che lo lasciò quasi spiazzato, ma dalla quale si senti moralmente “investito”.
Poi... finalmente soli, in macchina, sulla via del rientro:
‘La via di casa?’
Pensò, assurdamente, tra sé, che sarebbe stato bello rimane lì...
‘Ma perché?’ si chiese. Perché in maniera totalmente irragionevole, e non supportata da alcun fatto in divenire, né da alcun precedente accaduto... a questo punto, era perdutamente innamorato. Non soltanto di “donna Maria”, ma di tutta la situazione, come solo uno stupido uomo riesce a essere. Facendo tutto da solo.
Viaggiarono tutto il giorno, quasi sempre in silenzio. Ciascuno perso nei propri pensieri. Ciascuno, a suo modo sospeso, o nell’eccessivo pragmatismo o nella più assoluta sfera dell’improbabile. Contemporaneamente.
La sera, a Lubliana, scelse Giovanni dove andare. Erano quattro giorni che si abbrutivano e aveva bisogno di gratificazione. Come sempre nelle grandi città dell’Est, trovò l’albergo di lusso per stranieri. Essendo poi Lubliana molto “mitteleuropea”, l’albergo era bello veramente. Cenarono al lume di candela, col cameriere fisso al tavolo, in una sala ottocentesca che sembrava una di quelle dell’Hotel Sacher di Vienna.
La camera era matrimoniale. E per giunta col letto piccolo, alla francese. Senza malizia. Giovanni non aveva chiesto niente alla reception. Ma era capitato così. Andarono a letto molto rilassati. Giovanni, molto discretamente ci provò. Ma Maria fu più fedele all’amica di quanto lui lo sarebbe stato alla moglie.
Si addormentarono con un bacio. Solo con un bacio. Ma dai molti significati. Stima, amicizia, affetto, ma soprattutto riconoscenza.
Maria per quello che Giovanni aveva fatto per lei. Lui, perché Maria gli aveva impedito di fare una stronzata. Dormirono... innocentemente abbracciati come bambini.
La domenica pomeriggio arrivarono a Firenze. Diana li aspettava con degli amici, nella casa in campagna. Dovettero raccontare tutto il viaggio. Anche se era l’ultima cosa di cui Giovanni aveva voglia di parlare. Dopo la notte trascorsa innocentemente abbracciato a Maria, parlare di tutto il resto gli sembrava un’intrusione nella sua sfera privata, quasi una violenza. E poi, effettivamente si sentiva un tantino sbattuto. Cinquemila chilometri in quattro giorni, e poi su quelle strade, non sono pochi per nessuno.
Dopo cena, accompagnarono Maria in un albergo, poi finalmente a casa perché la mattina dopo doveva assolutamente andare in azienda.
Quando scese di macchina davanti all’ufficio trovò Marcello che già lo aspettava e sinceramente si preoccupò non poco. Come aveva fatto a sapere?
In quei quattro giorni Marcello si era accorto che oltre a Maria e Matteo mancava anche Giovanni, aveva fatto due più due ed era lì, minaccioso, ad aspettarlo.
«Vigliacco. Mi hai portato via mio figlio... »
«Calma Marcello. Non ho portato via niente a nessuno. L’ho solo accompagnato dai nonni, a Timisoara.»
«Sei stato a Timisoara?» Marcello era incredulo.
«Sì. E sai bene che non è dietro l’angolo.»
«Ma perché?»
Allora Giovanni scelse di giocare duro,
«Per colpa tua... » meglio attaccare mentre l’altro era spiazzato,
«...non voglio sapere gli scazzi fra te e Maria. Ma lei è talmente impaurita, che ha preferito togliere il bambino da una brutta situazione. Comunque è dai nonni. La strada la sai bene. Se non fai stronzate e provi a parlare con tua moglie in maniera civile, puoi andarci quando vuoi. Nessuno te lo nega tuo figlio! Cerca piuttosto di raccattare i tuoi cocci e di non farne altri!»
Aveva fatto la sua sparata tutta d’un fiato e adesso la faccia di Marcello non era più dura, ma smarrita. Gli fece anche pena, e fu contento che con Maria non fosse successo niente. Anche se, in effetti, non era stato per merito suo. Ma così si sentiva più legittimato a fargli la morale.
«Dov’è Maria?»
«Non sono autorizzato a dirtelo. Te lo farà sapere lei.»
«Sei uno stronzo.»
«No, Marcello. Sai bene di che cazzo di viaggio si tratta. E a me non ne viene niente. L’ho fatto solo per amicizia. Per tutti voi. Ora sta a te... pensaci, è meglio così... » e intanto lo guardava dritto negli occhi.
«Dille di telefonarmi.» e Marcello girò il culo, rimontò in macchina e andò via. Giovanni tirò un sospiro di sollievo. Non avrebbe mai sperato di cavarsela così facilmente. Anzi era stato quasi certo che, se andava bene, almeno un cazzotto lo prendeva. Mentre se andava male... non ci aveva voluto pensare. Entrò in ditta, andò nel suo ufficio, prese il telefono e chiamò Maria.
«Ciao Maria, come stai?»
«Bene, ...Marcello?» era preoccupata e in ansia. Sia per Giovanni, sia per se stessa.
«L’ho visto proprio ora. Via libera. Mando un taxi a prenderti, e poi ti racconto tutto in ufficio.»
Infatti Maria, oltre a essere un’amica di Diana... era anche la sua segretaria.
Adesso dovevano tornare alla vita normale. Era stato bello, ma le avventure sono tali, solo perché finiscono velocemente. “Il relativo” riprendeva il sopravvento su “l’assoluto”.
Maria e Marcello iniziarono la separazione.
Giovanni e Diana sembravano invece andare nella stessa direzione. Erano ancora due rette, ma solo apparentemente parallele. La loro “equidistanza” diventava sempre meno “equa” e sempre più “distanza”.
Quell’estate, dopo un’accurata preparazione, compirono “l’impresa”. In sei, con Franco e un altro amico, skipper di lunga esperienza, e le loro donne, fecero tutto il giro della Corsica a vela, in senso antiorario per avere i venti.
Partirono una notte d’inizio agosto da Punta Ala, come se andassero alla scoperta dell’America. Dovevano lasciarsi l’Elba a Sud e poi la Capraia a Nord per arrivare a Macinaggio, sul “dito” all’estremità Nord-Est della Corsica.
Il Tirreno non è l’Atlantico, ma quando ci sei nel mezzo la terra non si vede lo stesso. Dopo trent’anni che il mare gli scorreva nelle vene, Giovanni rimase turbato nel fare un bagno. Là nel mezzo, sapendo di avere duemila metri d’acqua sotto i piedi. Si erano tuffati tutti e sei. Avevano lasciato la barca da sola, con le vele alla cappa e la ruota del timone sterzata e legata, perché al limite girasse su se stessa ma non se ne andasse via da sola. Come sicurezza, avevano filato da poppa trenta metri di cima, con il salvagente anulare legato in fondo.
Completamente nudo, fece la capriola per immergersi e nuotò verso l’abisso. Per pochi metri. Lo prese quasi subito come un senso di smarrimento. Era impressionante pensare di aver solo acqua tutt’intorno. E non essere un pesce.
La sensazione dell’infinito data dall’orizzonte, in confronto a questo era ridicola. Ma risalì immediatamente, perché aveva sentito dire, che a scendere troppo si rischia davvero di perdere l’orientamento. A un certo punto non si capisce da che parte è il fondo e da che parte la superficie, e molto semplicemente non si risale più, perché si è affogati, senza neanche rendersene conto.
Fu un mese intenso e impegnativo. Un’immersione totale nel mare, ma soprattutto nella natura. Vissero tutti – sempre – completamente nudi. Si coprivano solo per ripararsi dal vento o dal troppo sole. A parte quando sbarcavano nei porticcioli, ovviamente. Trovarono bonacce e burrasche, posti molto frequentati e altri assolutamente deserti. Fecero amicizia con molti altri diportisti. Si sentivano il giorno sulla radio, facevano un po’ di chiacchiere e si davano appuntamento per la sera in qualche porticciolo, o anche solo in rada a un’insenatura, per cenare insieme. Era bello incontrare gente così. Ti eri solo parlato per radio, mai visti prima, ma sembrava di conoscersi da sempre. Il mare indubbiamente accomuna i naviganti...
A volte anche troppo.
Ad Ajaccio, in occasione di uno di questi rendez-vous, fecero “flotta” con altre due barche, per continuare il giro. La prima, di un avvocato livornese che aveva a bordo la moglie, e la figlia col fidanzato. La seconda di Lorenzo, un medico di Siena, separato, che portava in vacanza i due figli, maschio e femmina di quattordici e quindici anni, già esperti velisti.
Quando arrivarono a Propriano, nel Sud-Ovest, i due ragazzi dovettero ripartire per tornare dalla madre, e Lorenzo li accompagnò all’aeroporto di Figari dove doveva trovare suo fratello... che invece non arrivò. Di conseguenza rimase solo a bordo e la barca non era attrezzata per poter essere governata da un’unica persona. Chiese aiuto a loro che erano più numerosi. L’amico skipper con la sua donna, si offrì di andare con lui. Diana decise, così di brutto, che “si offriva” anche lei.
Giovanni non poteva lasciare Franco da solo, con la sua compagna che non aveva alcuna pratica. Lui doveva per forza rimanere a bordo. Ma Diana era testarda e lo lasciò solo e incazzato. Era troppo evidente dove voleva andare a parare, ma:
«Mica sarai geloso? Io di Maria non lo sono stata!» ...oltre al danno la beffa.
È un classico. E in quel momento fecero naufragio, ma non con la barca. Però ci mancò poco che lo facessero anche con quella, nelle Bocche di Bonifacio. Di quanto vento ci tirasse Giovanni se lo ricordava. Da quando, bambino, era stato a Caprera a trovare Garibaldi.
Anche quella volta che ci passarono a vela era una bellissima giornata, e avevano vento teso, di poppa, di quasi venticinque nodi. Giovanni stava alle manovre e Franco al timone. La sua donna, dopo aver indossato il giubbotto salvagente, dormiva nella cabina di poppa.
La mancanza a bordo dello skipper fu determinante. Per inesperienza erano troppo invelati.
Avevano su la randa, senza terzaroli, e il genoa grande, orientati a farfalla per prendere la massima spinta. Giovanni era in quadrato, al tavolo da carteggio, quando il mondo andò sottosopra. Si ritrovò gambe all’aria, con tutto che volava da tutte le parti.
Nella radio, gracchiante e allarmata, la voce di Lorenzo che li seguiva:
«Disgraziati ma che fate!? Vi rendete conto che avete messo le crocette dell’albero nell’acqua!?»
‘...fanculo!’ pensò Giovanni, senza rispondere alla chiamata.
Nei suoi confronti non si sentiva troppo bendisposto. E poi, in quegli istanti, aveva altre priorità. Soprattutto quella di non andare ai pesci!
Mentre la barca si raddrizzava, schizzò in coperta e trovò Franco, bianco come uno straccio, aggrappato alla ruota del timone. La troppa spinta in avanti, scendendo dalla cresta di un’onda, combinata al cavo con quella dopo, aveva fatto quasi uscire il timone dall’acqua e ingavonare la prua. Su questa, la barca aveva fatto perno, straorzando fino a dare un fianco al vento sulla cresta dell’onda successiva. E così si erano “sdraiati” fino all’albero, rischiando di capovolgersi.
«Cerca di tenerla dritta... » urlò a Franco mentre mollava la drizza del genoa e correva a prua, senza neanche assicurarsi. Attaccato con una mano allo strallo, e stando più sott’acqua che fuori, cercò di tirar giù la vela fino alla base e la lasciò sventolare sottovento.
Ora non spingeva più. Al massimo poteva strapparsi, ma chi se ne frega. Tornò in pozzetto e mollò le scotte della vela che aveva appena ammainato. Poi di nuovo a prua per recuperarla. Quella fu la cosa più difficile. Lottare contro un centinaio di metri quadrati di tela sbattuta dal vento non è mai semplice.
Quando ebbe finito non ne poteva letteralmente più. E doveva ancora ammainare un po’ di randa e ridurla legandola con i terzaroli. Poi mise su a prua una vela più piccola. Finalmente la barca, che fino a quel momento era stata come impazzita, si stabilizzò e Franco riuscì a riprenderne il completo controllo.
Giovanni ancora non ci credeva, e anche in seguito non è mai riuscito a spiegarsi come fece, in tutto quel casino, a non volare in mare.
Comunque, in qualche modo riuscirono infine a tornare a Punta Ala, e poi a Firenze. Tutti insieme. E nonostante tutto anche con dei bellissimi ricordi personali. Ma non correlati alle persone, solo ai luoghi. Infatti, da quel momento, per molti anni a venire e con tutti i mezzi di trasporto possibili, la Corsica sostituì la Sardegna nel cuore e nelle peregrinazioni di Giovanni.
L’inverno successivo trascorse nel solito tran tran. Le solite cose di sempre. Le solite “latitanze” di sempre. Il lavoro sempre più impegnativo a livello internazionale. La casa in montagna per i fine settimana di tutti e per le settimane bianche di qualcuno, e per quelle “in bianco” di qualcun altro. Le solite cene con i soliti amici. Stella che cresceva, andava a scuola, imparava a sciare, ed era sempre più bellina. Tutto molto normale, ma sul “freddino”.
Fra Diana e Giovanni, in maniera molto sottile e non dichiarata, si stava aprendo un solco sempre più profondo. In pratica del loro matrimonio era rimasta solo la facciata.
Col nuovo anno l’impegno dell’azienda in Iraq divenne sempre più importante, impegnativo e gravoso. Era anche altamente redditizio, ma sul momento stava praticamente assorbendo tutte le loro risorse.
Inoltre, dal settembre precedente, la situazione era diventata anche pesante e pericolosa perché l’Iran di Komeini e l’Iraq di Saddam Hussein, si facevano la guerra. Il socio persiano di Giovanni, che aveva ancora i figli e gli uffici a Teheran, era in ansia, e non a torto.
Finché, un brutto giorno, accadde la catastrofe. Due dei loro convogli diretti a Bassora, che trasportavano macchinari costosissimi, furono attaccati in pieno deserto dai caccia iraniani. Per puro caso non ci furono morti, ma andò tutto distrutto. Fu l’inizio della fine.
Le assicurazioni non coprivano, ovviamente, i danni causati dagli eventi bellici. Per tutelarsi parzialmente delle perdite subite, la ditta francese per la quale lavoravano bloccò tutti i loro crediti per i lavori già fatti.
Questo li mise economicamente in difficoltà e, nel giro di pochi mesi, completamente in ginocchio. La struttura aziendale a quel punto era enorme. Ed enormi erano di conseguenza le spese correnti.
Con i crediti bloccati, prima bruciarono tutte le risorse, poi si incasinarono di brutto anche con le banche. Dopo aver ridimensionato nei limiti del possibile tutta la loro struttura, furono costretti a prendere la decisione più dolorosa. Non era una cosa semplice. L’azienda era una società per azioni, con tanto di collegio dei sindaci revisori. Non si poteva uscire da certe regole. E poi, non lo avrebbero fatto.
Portarono i libri contabili in Tribunale e chiesero un concordato fallimentare. Era finito tutto. Anche Giovanni si ritrovò in difficoltà economiche. Ovviamente, sparirono anche tutti i gadget. Mercedes, barca, casa in montagna, ma quello era il meno. A un certo punto si ritrovò realmente senza una lira e con le banche sul collo, come gli altri soci, per via delle fideiussioni. Non era tipo da arrendersi e si arrangiò per portare un po’ di soldi a casa. Anche facendo nottate di sorveglianza nel piazzale dell’azienda, per conto del giudice fallimentare. Non era il massimo come coronamento della sua carriera, che per certi versi e in certi momenti era stata veramente strepitosa. Sic transit gloria mundi. (Sic!)
Anche Diana, per la prima volta in vita sua dovette mettersi a lavorare. Prima con qualcosa di occasionale, perché non aveva esperienza. Poi, grazie a una conoscenza, riuscì a farsi assumere in una grande azienda elettronica, come impiegata. La sua fame di indipendenza, che negli ultimi anni l’aveva consumata, cominciò a trovare gratificazioni.
A quel punto le loro rette non erano più nemmeno apparentemente parallele. La divergenza divenne assoluta, e in aumento esponenziale.
Finalmente, però, quell’anno di merda volgeva al termine. Passarono le più brutte “feste” della loro vita. Ma il primo giorno dell’anno nuovo, fecero l’amore.
Per certi aspetti erano ancora stupidamente bambini. A quella specie di rito scaramantico non avevano mai rinunciato dacché stavano insieme.
Non ci rinunciarono neanche, tra le ancora fumanti macerie della loro vita a due.

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