Visualizzazioni totali

lunedì 16 luglio 2012


V     Mille più mille

1986, autunno.
...ma, quasi per gioco. Tanto, che vuoi che sia?
Un piccolissimo ristorante vicino a dove abitavano. Ci avevano mangiato diverse volte, negli ultimi anni.
Lo gestiva un simpatico ometto basso e grasso, che rotolava fra i tavoli con un’agilità sorprendente. E in cucina ci stava sua moglie. Insomma, la tipica trattoria di quartiere, molto tirata via ma piacevole. E loro ci scommisero sopra. Sandro, l’ometto, volle un sacco di soldi. Firmarono cinque anni di cambiali.
«E quando l’abbiamo finito di pagare, si rivende!»
...ne sono passati quindici di anni, e sono ancora lì. La vita è strana. A volte proprio le cose che sembrano più facili e meno impegnative, sono quelle che ti catturano. Ti fanno prigioniero e non ti rilasciano più.
Lo finisci di pagare e ti viene voglia di continuare ancora qualche anno per fare un po’ di soldi. Ma poi viene una crisi, e allora bisogna andare avanti e aspettare tempi migliori. Sempre così, a elastico, e gli anni passano senza che neanche te ne accorgi. Ti accorgi solo che le stesse cose diventano più pesanti e faticose. Non per svogliatezza. Solo perché invecchi. Magari senza rendertene conto, come faceva Giovanni. O meglio, senza volerlo ammettere neanche con te stesso.
Un ristorante, d’altronde, non è un posto di lavoro nel quale ti rinchiudi. È un palcoscenico sul quale si recita a soggetto. Sempre davanti a persone diverse, proprio come in un teatro. Anche se qui non sai mai con certezza chi sono gli attori e chi gli spettatori. Di attori o spettatori, attorno ai loro tavoli, Stella e Giovanni ne hanno visti passare parecchi. Tanti sono diventati amici, ma pochi lo sono diventati veramente. Succede sempre così, quando sei al pubblico. Alla categoria dei “veramente” forse due soli personaggi meritano la menzione di appartenenza a pieno titolo: Antonio e Gianluigi. E tanto per sparigliare partiamo proprio dal secondo.
A Gianluigi... uno, nessuno e centomila di tutto e di niente... è la motivazione con cui Giovanni gli ha dedicato, in una mezza citazione pirandelliana, un piccolo saggio ispirato all’Uomo vitruviano di Leonardo, nel quale ha cercato di dare un filo logico alle riflessioni sulla vita e sulla morte, che da sempre lo affascinano.
Gianluigi è realmente l’archètipo del vero amico, che in tanti anni è stato, e continua a essere – pur ammantandosi dei panni dell’uomo qualunque – il suo principale punto di riferimento per la comprensione di certe cose. Perché, nonostante “ci faccia”, uno qualunque assolutamente non lo è. Almeno non per Giovanni.
Per quanto riguarda gli altri, bisogna vedere se lo hanno capito. O meglio, se lui ha voluto che capissero... che c’era dell’altro oltre il dottore in economia.
Gianluigi ha dieci anni più di Giovanni. Non molti se consideriamo che Giovanni ne ha dieci più di Stella. Praticamente sono coetanei. Un tempo era un cliente quasi fisso. Oggi invece si vedono raramente, quattro o cinque volte l’anno, e tirano tardi a parlare finché non hanno seccato la bottiglia di grappa che Giovanni mette al centro del tavolino. Raramente si sentono anche al telefono. Ma solo perché non ce n’è bisogno. Spesso le parole non servono, bastano i pensieri. E quelli possono arrivare anche da lontano, e anche senza fili.
Con Antonio il percorso è stato quasi il solito, ma in senso inverso. La prima volta è stato un cliente occasionale. Una sera del giorno di Natale. L’unica sera di Natale che Stella e Giovanni hanno tenuto aperto il ristorante, dopo il pranzo del giorno. Antonio era da solo e data la serata particolare, e la mancanza di altri commensali, fecero “quasi” amicizia. Lui viveva da decenni all’estero, nel Nord Europa, pur avendo mantenuto quasi morbosamente le sue radici fiorentine.
A quell’epoca aveva quindici anni più di Giovanni ed era uno scienziato aerospaziale in odore di Nobel. Ma viveva da solo. Tornava a Firenze ogni due mesi e, dopo qualche volta, fecero amicizia senza “quasi”.
È durata finché Antonio è stato da solo. Quando s’è innamorato d’una giovane collega russa con la metà dei suoi anni e una figlia, e poi l’ha sposata, ha cominciato a ringiovanire di un anno ogni anno. Quando è andato in pensione e ha trasferito definitivamente armi e bagagli e famiglia in Italia, era già diventato coetaneo di Giovanni! Ma insieme agli anni, ha via via perso anche la testa. Finché un giorno, che ragionava con quella della moglie e non con la sua, è scoppiato uno scazzo tremendo, per futili motivi, e non si sono più né visti né sentiti. Peccato... è stata una grande delusione. Davvero!
Ogni tanto Giovanni ripensa alla vecchia professoressa d’italiano delle medie, e gli verrebbe voglia di mettersi a scrivere veramente. Avrebbe tante cose da raccontare sulla gente. Anche se sono spunti già sfruttati perfino nelle sit com televisive. Forse prima o poi troverà il coraggio di farlo. Ma non prima di essere diventato vecchio. Se mai riuscirà ad accettare di diventarlo!
Intanto la cosa certa di quel “non lavoro” è che non gli lascia un attimo libero. Stella e Giovanni si sono piano piano bruciati tutti gli amici di prima. Tutti quelli che li avevano invogliati ad aprire un ristorante. Ma non perché al ristorante bisogna pagare. La differenza con le cene a casa non è quella. È che la gente cambia. Si sposa, si trasferisce, fa figli. E si ritrova con quelli come loro, che magari hanno bambini piccoli. Stella e Giovanni invece, figli non ne hanno avuti. Non hanno avuto il tempo.
In compenso hanno avuto diverse case, ma tanto a casa non ci sono mai. Per loro le vacanze sono ormai diventate un optional rinunciabile. E gli altri... fanno la loro vita.
Al ristorante si mangia. Loro invece dal ristorante si sono fatti un po’ mangiare. Ma senza rimpianto. La vita può essere quello che è, ma merita comunque d’essere vissuta. E allora gambe in spalla, e via andare.
Anche Stellina era andata lontano. Non più di trenta chilometri, con Diana e il suo nuovo marito. Ma in certi momenti furono una distanza abissale. Da adolescente poi, aveva altre priorità e per lunghi periodi si persero di vista. Padre e figlia si intestardivano che doveva essere l’altro a chiamare. E così stavano mesi senza sentirsi e poi si tenevano il broncio. Ma Giovanni e Stellina sono fatti così, dallo stesso stampo. Uguali come due gocce d’acqua e duri come i sassi. Sempre pronti però a riprendersi, dimenticando immediatamente gli screzi. Come se fossero appartenuti a due persone differenti e non a loro. Fermo restando che è banale riconoscersi nelle canzoni, fu proprio in una canzone che, anni dopo, Giovanni trovò la spiegazione delle loro testardaggini:
“...prima di pretendere qualcosa, prova a pensare a quello che dai tu...”
...di una semplicità disarmante, direi addirittura ovvio. Perché cazzo non c’era arrivato da solo!
Ma intanto stava arrivando la fine del millennio. Enrico non la vide. Morì quasi un anno prima. Ma a voler essere sinceri, fino alle radici del cuore e del cervello, morì tre anni dopo. Tre anni dopo il momento nel quale lui avrebbe voluto, quando aveva settantacinque anni.
Nicola, il nonno di Giovanni, morì improvvisamente una notte, quando lui aveva sedici anni. Anche Nicola ne aveva settantacinque. Quel numero quasi perfetto – tre quarti di secolo – è rimasto per sempre in un ramo secondario della sua mente. Ma Giovanni l’aveva dimenticato.
I suoi genitori vivevano da anni nella mega-casa di campagna. Fu qui che suo padre ebbe il tracollo improvviso e lo portarono, per la prima volta nella sua vita, all’ospedale della zona. E anche Enrico, allora, aveva settantacinque anni.
Un giorno che Giovanni era da solo con lui, in ospedale, ebbe un attimo di lucidità,
«Ormai sono già morto.» gli disse prendendogli la mano e guardandolo dritto negli occhi.
Giovanni, lì per lì non se ne accorse, ma Enrico stava esprimendo più una volontà che una constatazione.
«Dài scemo, ma che dici?» cercò di minimizzare...
per rassicurare quell’uomo, al quale lo legava un rapporto più complesso di quello che normalmente c’è tra un figlio e un padre. Li rendeva complici qualcosa di molto più importante. Avere condiviso, da amici, tante tappe importanti delle loro vite. La vita continuò – quella di Enrico – ma per modo di dire. Fisicamente a pezzi, presto entrò in dialisi. Ma soprattutto aveva danni alla testa. Alle ortiche i nomi ufficiali e i termini clinici. Si trattava, duramente, di demenza senile.
Enrico l’aveva intuito, e non era disposto ad accettarsi così. Giovanni invece, non aveva capito un accidente. Ma accettava suo padre anche in quelle condizioni. Senza benché minimamente rendersi conto, che il suo atteggiamento era solamente dettato dall’egoismo.
Ben presto Enrico e Caterina dovettero lasciare la casa in campagna, e tornare a Firenze per le cure. Giovanni e Stella gli lasciarono la loro casa.
Quella in cui erano nati sia lui che sua madre.
Quella in cui era morto nonno Nicola.
Tutti sempre nella stessa camera.
Ne comprarono un’altra, piccolina, a costo di un enorme impegno. S’illusero, tutti, che le cose avessero preso un binario senza capolinea. In effetti un paio d’anni passarono. Non bene, ma quel tanto da illuderli. Però il declino non poteva essere fermato.
Quando gli era possibile, Giovanni accompagnava Enrico a fare la dialisi. Dopo qualche ora andava a riprenderlo e lo trovava sempre più arreso. In un freddo pomeriggio d’inverno, mentre stavano andando verso l’ospedale, suo padre ci provò di nuovo:
«Non ci voglio andare! Giovanni, perché non mi porti in campagna?»
«Enrico..., babbo..., lo sai che se salti una dialisi domani sei morto.»
Sempre la stessa storia, e andava a finire sempre nel solito modo. Ma quel giorno il cellulare di Giovanni suonò prima del tempo. Corsero... mentre Stella avvertiva Anna e Marco di andare a prendere Caterina.
Quando arrivarono, Giovanni volle entrare da solo dove aveva lasciato Enrico. Per fortuna. Era ancora sul lettino della dialisi. Lo avevano già spogliato e così, brutalmente nudo, sembrava un grande ranocchio fulminato.
«Presto, prima che arrivi mia madre. Se lo vede così muore anche lei!»
Ma anche quando lo portarono fuori dal reparto, sommariamente ricomposto e coperto, con una fascia intorno alla testa per tenere chiusa la bocca, non era uno spettacolo molto migliore. Ormai erano arrivati tutti, e ciascuno visse a modo suo l’angoscia e la disperazione di quel momento.
Giovanni non riusciva a pensare che una parola, una sola, e dentro di sé la ripeteva all’infinito...
‘scusami... scusami... scusami... scusami... scusami... ’
Quanto sarebbe stato meglio se quel maledetto giorno avesse dato retta a suo padre e lo avesse portato nella casa in campagna.
Quanto sarebbe stato meglio per Enrico morire lì, invece che in quello squallido reparto d’ospedale. Quando uscirono fuori stava cominciando a nevicare.
«Sta piangendo anche il cielo... » pensò Stella ad alta voce. A Firenze succede di rado. Ma forse non era un caso. Un po’ sembrava di essere in campagna: a Enrico sarebbe piaciuto di sicuro. Oggi le sue ceneri sono racchiuse in un’urna di metallo, dietro a una piccola lapide sotto a un cipresso, e Caterina va spessissimo a “trovarlo”.
Giovanni no. Lui non crede nel culto dei “sepolcri”. Infatti, con Stella, hanno già scelto le loro urne. Sono di sale marino pressato. Hanno già lasciato scritto anche da dove le urne dovranno essere messe in mare, insieme. Un preciso scoglio isolato nel Sud della Corsica, sulle Bocche di Bonifacio, di fronte alla Sardegna. Perché dopo una vita, che il mare ti scorre anche nelle vene, alla fine è giusto che sia tu a scorrere nel mare.
Uno dovrà aspettare l’altra, e quando sarà il momento toccherà a Stellina disperdere le ceneri. Anche lei conosce quello scoglio. Ci sono stati insieme l’anno prima che si sposasse con Piero. È stata l’ultima vacanza che hanno fatto insieme, e anche la prima da adulti.
L’anno successivo, quando si sono sposati in pompa magna, e a Giovanni ha ricordato tanto quella volta che lui lo aveva fatto con Diana. E sentiva che non sarebbe durata. Ma non poteva nemmeno minimamente immaginare, in quel momento, quanto presto e perché sarebbe finita.
Piero e Stellina fecero appena in tempo a concedersi un meraviglioso viaggio di nozze in Nuova Zelanda. Evidentemente cercavano agli antipodi, qualcosa che qui sapevano di non poter avere.
Passò l’inverno, e prima dell’estate successiva Stellina rimase vedova. Lei lo aveva saputo da sempre e forse proprio per questo non si era tirata indietro. Il fatto è che Piero, all’insaputa di tutti gli altri, si portava dentro, da una precedente disgraziata esperienza, quel qualcosa che non perdona. Quando Giovanni lo seppe, poco prima della fine, fece di tutto per cercare di aiutarlo, e quasi ci riuscì. Avevano trovato delle speranze a Torino: Piero era ricoverato alle “Molinette”.
Per i consuoceri e Stellina, tramite un’associazione di volontariato, aveva trovato un appartamentino d’appoggio, vicino all’ospedale.
Quando successe però, purtroppo Stellina non era con lui, ma in Toscana a casa di sua madre. Per chissà quale scherzo del destino, anche quella sera di luglio fu il cellulare di Giovanni a squillare. Il fratello di Piero, da Torino gli dava la notizia. Non che fosse un fulmine a ciel sereno. Piero era in rianimazione da giorni, e di speranze ormai non ne avevano. Ma la conferma è sempre qualcosa che non vorresti ricevere. Specie poi, se la devi girare. Chiamò Stellina a casa di sua madre, e le disse semplicemente:
«Vengo a prenderti.»
Lei capì immediatamente, e in quel momento iniziò la notte più lunga che quel padre e quella figlia abbiano mai trascorso insieme. Soprattutto la più intensa di tutta la loro vita precedentemente condivisa.
Viaggiarono per tutta la notte, su autostrade irrealmente deserte. Senza trovare manco un camion. Nemmeno nella zona di Genova che ne è sempre congestionata...
Forse fu veramente una dimensione parallela, aperta solo per loro, quella nella quale si mossero.
Stellina gli raccontò cose che non aveva mai immaginato, e che non avrebbe mai voluto sentire. Dovette fare ricorso a tutta la sua esperienza, e alla sua poca saggezza, per cercare di arginare quel fiume in piena, di sensazioni disperate, che era diventata sua figlia.
Parlarono ininterrottamente, e più d’una volta Giovanni si trovò quasi arreso... perché è molto più facile raccogliere i cocci di una persona fragile, che non quelli di una dura come l’acciaio.
Per non essersi mai voluta piegare, quella figlia a un certo punto esplose letteralmente, come il cristallo temperato: in frammenti minuscoli. E quel padre, in tutta la sua vita, aveva fatto troppo poco il padre per sapere con certezza come fare... a rimetterli insieme.
Poi arrivarono, purtroppo.
Alle cinque di mattina lasciò Stellina, distrutta, su un divanetto di fronte al banco di una portineria, nei sotterranei dell’ospedale. Entrò da solo, vista l’ora, nella sala dell’obitorio che il portiere gli aveva indicato. Tra una decina di lettighe trovò subito Piero, perché non gli avevano ancora tirato il telo verde sopra la testa.
Quella mattina, a Torino, faceva un freddo cane, nonostante fosse luglio. Ma in quella stanza era anche peggio: il freddo ti partiva da dentro. Uscì, ringraziò il portiere di notte, che aveva chiuso un occhio, raccattò – letteralmente – Stellina e la portò in cima al parco del Valentino... a veder sorgere il sole. Anche se quel giorno il mattino non portava la gioia...
...era l’unica cosa da fare.

*

Quello stesso sole lo aveva visto sorgere sei mesi prima con Stella, il primo giorno dell’anno in cui ne avrebbe compiuti cinquanta.
Dopo avere lavorato tutta la notte al ristorante, andarono a vedere l’alba al piazzale Michelangelo.
Quel luogo aveva per loro una valenza particolare. Era il primo posto che li aveva visti vivi, quando non erano riusciti a morire insieme. Rappresentava la continuità della vita. In tutti i sensi.

*

Purtroppo, di lì a poco, il nuovo millennio non sarebbe cominciato nel migliore dei modi.
Ma avrebbe avuto tempo per riprendersi.
Altri mille anni... “auguri”.

Nessun commento:

Posta un commento